Gli sembrò strano aprire gli occhi per ritrovarsi immerso nella stessa identica luce della sera prima, quando si era infilato nel letto ed aveva spento la piccola lampada sul comodino. Era come se il tempo non fosse passato, come se non avesse dormito affatto. Ma lui sapeva perfettamente che ora era: le sei e trenta del mattino. Si svegliava a quell’ora oramai da tanti anni senza bisogno di niente. Apriva gli occhi con uno scatto ed era sveglio. Non sentiva neanche la necessità di abituarsi gradualmente. Il sonno si interrompeva e lui era perfettamente desto. E riposato.
Si sollevò sul busto facendo leva con le mani puntate sul materasso e stringendo gli occhi per lo sforzo; le coperte scivolarono via e il freddo della stanza lo aggredì improvvisamente ed istantaneamente come se fosse stato tutta la notte in agguato, in attesa di quel momento. Si mise a sedere sul letto tastando, lentamente, il pavimento gelido con i piedi in cerca delle pantofole.
Indossò la giacca da camera e uscì dalla stanza. Sentì delle fitte reumatiche dietro la schiena che lo costrinsero a trascinare i piedi fino in cucina. La casa era silenziosa, ancora assuefatta dalla notte. Preparò la macchinetta del caffé cercando di fare meno rumore possibile. Accese il gas e si mise in attesa, guardano fuori dalla finestra. Rimase così, in piedi, ad osservare quell’angolo di città assonnato e rischiarato dall’idea di una luce che doveva ancora sorgere. Dietro di lui l’orologio, dipinto a mano con fragole e limoni, appeso alla parete ticchettava rumorosamente approfittando del silenzio. Bevve il caffé come ogni mattina seduto al solito posto: di spalle alla finestra.
Guardò di nuovo l’orologio quando sentì il suono sommesso della sveglia elettrica della camera del figlio che continuò ad emettere i suoi fastidiosi big per almeno tre minuti prima che qualcuno la interrompesse. Si alzò dalla sedia quando il figlio entrò in cucina sbadigliando, stropicciandosi i capelli e biascicando un buongiorno che sembrava più un rantolo causale prodotto dalla sua gola. Lui gli sorrise con un cenno del capo, così come faceva ogni mattina, senza parlare. Versò in una tazzina il caffé per il figlio che seduto con i gomiti appoggiati sul tavolo continuava a sbadigliare.
Le cose che succedevano la mattina erano più o meno sempre le stesse, il tempo passava scandito dagli stessi movimenti, gli stessi rumori, gli stessi odori. Le stesse, poche e svogliate, parole.
Quindi sapeva, seguendo quella monotona cronologia, che di lì a poco si sarebbe alzata Laura, sua nuora e lui sarebbe andato nella sua stanza per vestirsi, evitando, così, di intralciare i movimenti di quella cucina che la mattina, con quel via vai di gesti frettolosi per uscire di casa, sembrava ancora più piccola.
Mentre era in camera entrò il nipote, Fabio, un ragazzino di dodici anni; il suo unico nipote. Aveva il pigiama ed era, anche lui, ancora assonnato. Fabio rimase sulla soglia attaccato alla maniglia della porta con entrambe le mani e lo sguardo di chi non sapeva cosa stesse facendo lì.
- Ehi, Fabiolino. Buongiorno.
Il nipote sorrise chiudendo gli occhi.
- Auguri nonno.
Era il suo ottantunesimo compleanno. Se ne era dimenticato. Così come aveva fatto con l’ottantesimo e quelli ancora prima. Non ricordava neanche quando aveva iniziato a dimenticarli. Dopo i settanta forse, quando il tempo, in qualche modo, aveva iniziato a dilatarsi, accordandosi ai suoi movimenti che erano sempre più lenti e cauti. Non hai più bisogno un gran bisogno di misurarlo il tempo.
Era il sei febbraio. Accidenti.
Sorrise al ragazzino, allargò leggermente le braccia per chiamarlo a sé e Fabio si staccò pesantemente dalla maniglia, camminando imbarazzato verso di lui. Si chinò un po’ per abbracciarlo, carezzandogli i capelli ricci e ancora caldi di cuscino e sentì di nuovo le fitte alla schiena.
- Grazie, Fabiolino.
Quando si rialzò vide sulla soglia, Carlo, il figlio, già vestito e pronto per uscire. Sicuramente era stato lui a dire a Fabio di andare in camera per fargli gli auguri; lui si era ricordato del suo compleanno. Il nipote corse via, e il figlio gli andò incontro abbracciandolo. Non gli disse niente.
- Grazie Carlo.
Poi fu il turno di Laura. Gli piaceva il profumo del sapone che usava sua nuora. Gli ricordava la fragranza della lavanda. Sua moglie la piantava in continuazione in piccoli vasi che metteva sul balcone esposto ad est della loro casa. Ogni tanto staccava i rami più grandi e li metteva a seccare e quando era pronta confezionava dei sacchetti, pieni di quelle foglie profumate ed essiccate, che distribuiva in quasi tutti i cassetti della casa.
Quando tutti uscirono, in casa tornò di nuovo il silenzio. Il figlio gli aveva chiesto cosa avrebbe fatto il giorno, una cosa che non gli chiedeva mai. E lui gli aveva risposto che avrebbe fatto quello che faceva quasi tutti i giorni: una passeggiata.
Quando uscì il cielo era maculato, come se un’enorme nuvola bianca fosse improvvisamente esplosa sparpagliandosi in tanti piccoli pezzi. Era il sei febbraio, il giorno del suo compleanno e doveva andare a salutare una persona. Una persona che ancora prima del figlio si ricordava dei suoi compleanni.
La piantina di lavanda davanti alla lapide della moglie iniziava a seccarsi. Accarezzò le foglioline appuntite e qualcuna più secca si lasciò andare staccandosi e rimanendo impigliata tra le sue dita. Le annusò, aspirando forte con il naso, ma la fragranza era più che altro un’impressione.
Quando andava a trovare la moglie non sapeva mai cosa dirle. Sentiva spesso le persone parlare con i propri parenti morti, ma lui non ci riusciva. Restava fermo lì a guardare la foto sulla lapide, pulendo ogni tanto con la punta delle dita la polvere che si accumulava ai brodi del marmo o attorno all’ovale della fotografia. Cercava di ripensare ai momenti con lei, ma i ricordi si mischiavano ai pensieri in modo talmente repentino e confuso da non avere più la reale consistenza di quello che era stato. Provava una infinita voglia di abbracciarla, sapendo che non aveva presente neanche più l’ultima vota che lo aveva fatto, prima che lei morisse. Era questo l’unico modo in cui riusciva a parlarle.
Quel giorno guardò in basso il loculo vuoto posto sotto quello dove era tumulata la moglie. Chissà perché. Poi alzò di nuovo lo sguardo, si baciò le dita e le portò sulla fotografia. Staccò un rametto di lavanda e lo mise nella tasca del cappotto. – Posso avere ancora un cassetto con i sogni secondo te? Lo potrei mettere lì dentro, così sembrerà che siano appena stati messi a stender al sole. Non lo disse ad alta voce, lo pensò soltanto. E non era neanche sicuro che la domanda fosse rivolta alla moglie o a se stesso. Aveva la certezza che lei non gli avrebbe mai detto di no. La lavanda, per lei, andava bene in qualsiasi tipo di cassetto.
Diede un’ultima occhiata alla lapide, e se ne andò chiudendosi il cappotto attorno al collo. Mentre camminava mise la mano in tasca per stringere il rametto e tirò fuori un volantino. Erano cinque giorni che girava con quel depliant in tasca. Ma quello era il giorno del suo compleanno, e decise di andarci.
Cosa si chiede una chiromante se si trova seduto di fronte un uomo di ottantuno anni? Lui non sapeva perché era lì. Davvero non lo sapeva. Ma lo sguardo imbarazzato della sensitiva non lasciava scampo: anche lei si stava chiedendo cosa facesse lui lì seduto. La ragazza doveva avere all’incirca trent’anni, era vestita normalmente come una qualsiasi persona che puoi incontrare per strada, e anche la stanza nella quale si trovavano era un normalissimo salottino, arredato con mobili colorati di bassa qualità.
Aveva sempre avuto una grande curiosità nei confronti delle chiromanti e del posto in cui esercitavano la loro arte. La moglie quando era giovane andava spesso da una vecchia sensitiva che viveva nel suo paese e non faceva altro che parlargliene, raccontandogli di come questa persona fosse in grado di infondere fiducia “soltanto guardandoti negli occhi”. Ci era andata anche quando lui le aveva chiesto di sposarla, e a sentire la moglie, se la sensitiva non l’avesse rassicurata su di lui e sul loro futuro insieme probabilmente non si sarebbero mai sposati. La prima volta che gliene parlò fu quando nacque Carlo: gli raccontò anche che la sensitiva le aveva predetto che avrebbero avuto un figlio maschio. Un solo figlio. E in fondo si era avverato: anche se avevano provato a lungo ad avere altri figli non c’erano mai riusciti. E da allora non perdeva occasione per parlargliene. Lui non credeva a quelle cose ma non lo aveva detto alla moglie, perchè sapeva che avrebbero, inutilmente, discusso. Quel volantino trovato nella cassetta delle poste gli aveva ricordato tutto e poi era sempre stato curioso di sapere come fosse fatta una chiromante.
In quel momento, seduto lì, cercava di ripensare a tutto quello che gli aveva raccontato la moglie. Ma non combaciava niente: né il tipo di persona, né il luogo. Non sapeva neanche cosa chiederle, non si era preparato domande o richieste convinto com’era che a parlare sarebbe stata la sensitiva. Invece lei era di fronte a lui con una sguardo che rasentava l’incredulità, in attesa che qualcosa succedesse.
Girò il palmo della mano sinistra allungandolo verso di lei. La ragazza la guardò , poi guardò lui. Restarono così per qualche istante fino a quando la donna ruppe l’imbarazzo e l’immobilità prendendogli la mano. Passò le sue dita sul palmo come si fa sulla prima pagina di un libro che si sta iniziando a leggere. Mentre gli fissava il palmo, le sue pupille si muovevano nervosamente come se seguissero dei movimenti velocissimi. Lui la guardava, incuriosito.
- Dove sono?
Non gli venne in mente nient’altro da dire che quelle due parole.
La chiromante alzò lo sguardo.
- Come mi scusi?
- Dove sono?
Le indicò la sua mano sinistra.
- Nella linea della vita dove sono arrivato?
Lo sguardo della ragazza si trasformò, forse non si era mai trovata di fronte ad una richiesta del genere. Le persone che andavano da lei le chiedevano, presumibilmente, come sarebbe stata la loro vita, quali ostacoli e quali intoppi avrebbero dovuto affrontare, ma quasi sicuramente nessuno le aveva mai fatto una domanda del genere. Ma lui non sapeva come comportarsi e poi gli sembrava così strano essere lì a farsi predire il futuro da una ragazza che aveva cinquant’anni di passato in meno.
- Beh mi rendo conto che le sembra strano che un vecchio sia venuto qui per farsi prevedere il futuro. Che cosa potrebbe mai interessare ad un uomo che è quasi giunto alla fine? L’amore? No, perchè oramai non mi aspetto e non aspetto di incontrare la donna della mia vita: ho avuto il tempo di conoscerla, amarla e perderla anche. La salute? Quella ce la raccomandiamo tutti, no? Io sono in buona salute, ma tutto diventa così relativo. Se lei alla sua età avesse i dolori che ho io, probabilmente penserebbe che sta per morire. Il lavoro? Il mio curriculum vitae potrebbe essere interessante, se fosse presentato da una persona con quarant’anni in meno. E poi no, non voglio sapere neanche dove sono arrivato. Forse ogni tanto me lo chiedo, ma che importanza ha sapere a che punto di questo ricamo della mano siamo? Io dovrei essere in piena discesa, ma visto il fiatone che ho per qualsiasi sforzo faccia credo invece di essere in salita. Proprio qui vede?
Indicò il rigonfiamento della mano subito sotto il pollice.
- In qualche punto qui.
La sensitiva lo stava ascoltando. Aveva anche abbozzato un sorriso e questo lo sollevò dalla preoccupazione di averla imbarazzata con la sua presenza e con quella strana richiesta di apertura. Lui girò i palmi di entrambe le mani.
- Ma ecco dove sono sicuro di essere.
Di nuovo incrociò lo sguardo interrogativo della ragazza.
- Lì.
E indicò con gli occhi il dorso delle mani.
- Tutti quei solchi… li vede? Io sono lì, tra quelle rughe. Tanto tempo fa non le avevo e poi sono arrivate, sono aumentate e si sono infittite. All’inizio non ti spieghi il perché, le osservi quasi ogni giorno domandandoti cosa ci fanno, a cosa servono. E mentre te lo chiedi non ricordi più quando sono comparse la prima volta. E se non lo ricordi è come se ci fossero sempre state. Come se lentamente ci restassi incastrato dentro. Perché è così: ci sei dentro. Completamente. Tra quelle linee c’è il mio passato, e c’è inciso anche il mio futuro. È sempre stato lì da quando sono nato, solo che adesso riesco a vederlo.
Accarezzò le mani della ragazza che lo ascoltava senza staccare lo sguardo dalle sue mani. Le sorrise dolcemente.
- Forse, e dico forse, vorrei darle un’altra chiave di lettura della vita. E così come la do a lei, allo stesso tempo la dedico a me. Tutti ne abbiamo bisogno senza distinzioni di età.
La chiromante solo in quel momento rispose al sorriso. I suoi occhi si erano rilassati e questo atteggiamento lo rinfrancò. Aveva iniziato a parlare senza sapere perché, e a quel punto poteva solo sperare di provare a non andar via senza essere considerato un vecchio pazzo, e in qualche modo quello sguardo lo aiutò a staccarsi da quell’idea.
- Grazie.
La ragazza gli strinse la mano sinistra. E lui si alzò faticosamente dalla sedia.
- Quanto le devo? Almeno per il disturbo. So che non si aspettava una mattinata così.
La chiromante si lasciò andare con la schiena sulla sedia, senza smettere di sorridere.
- Non mi deve niente. E sì, sinceramente, è stata una mattinata diversa dalle altre. Ma non aspettarsela non significa che sia stata negativa.
Lui aprì ancora di più il sorriso, e si avviò lento verso l’uscita. Era in qualche modo appagato da quella giornata. Era il suo compleanno e non lo aveva ricordato. Adesso nessuno glielo avrebbe mai più fatto dimenticare quel giorno.
- Grazie.
La voce della ragazza gli arrivò improvvisamente, come una folata di vento gelido. Non si voltò e non le rispose.
Quando rientrò, sua figlio, sua nuora e suo nipote erano già in casa. L’appartamento era attraversato da un buon odore di cucina. Tutti e tre fecero capolino dalla sala quando sentirono chiudersi la porta di ingresso. Non gli chiesero niente, ma sicuramente lo stavano aspettando, chiedendosi dove fosse finito, perché non era mai successo che rincasasse dopo di loro.
- Ho fatto una lunga passeggiata. Sono andato al cimitero a trovare Emma. Poi mi sono fermato in una pasticceria a prendere dei dolci. Non sapevo quali comprare e ci ho messo un po’ a decidere.
Alzò in aria il vassoio per farlo vedere.
Mentre erano a tavola, il figlio di tanto in tanto lo guardava, come se volesse chiedergli qualcosa. E alla fine fu lui ad alzare lo sguardo verso Carlo e gli disse:
- Oggi sono andato a farmi predire il futuro.
Sia la nuora che il figlio alzarono la testa dal piatto e lo guardarono come se non avessero capito. In realtà aveva compreso benissimo quello che aveva detto, ma ci misero un po’ ad elaborare la frase e a giungere alla conclusione che lui li stesse prendendo in giro. Si scambiarono uno sguardo, sorridendo dell’ironia di quel vecchio. E il figlio per tenergli il gioco gli chiese ondulando la voce quasi in falsetto:
- Ah, sì? E cosa ti ha predetto per il futuro.
Lui posò le posate nel piatto, appoggiò i gomiti al tavolo:
- Mi ha detto che vivrò… finché avrò lavanda profumata nei cassetti. |