Anselmino aprì lentamente la porta. Era eccitato come non gli succedeva da anni, forse dai tempi del liceo… Ma basta, sono stanco… si era detto un giorno ribellandosi anche a se stesso, alla sua natura tranquilla ed aveva rimuginato per settimane fino a mettere in gioco qualcosa d’importante… La dignità forse? Sì, proprio quella… La dignità di un cristiano che vuole fare le sue scelte, e in piena libertà, cazzo!, pensò Anselmino ancora convinto delle sue azioni… Ma lei, Ninetta? Era consapevole di quello che stavano facendo? Anselmino cacciò via quel brutto pensiero e aprì.
La porta non cigolò come al solito e Anselmino sentì una calorosa soddisfazione corrergli dentro, l’olio da cucina che aveva fatto scendere goccia a goccia sui cardini con uno stuzzicadenti aveva funzionato egregiamente, tirò anche un sospiro di sollievo: “la fuga” stava iniziando sotto gli auspici di una buona stella.
Il corridoio era deserto e non poteva essere diversamente a quell’ora… Già, a quell’ora… Alle dieci si spegnevano le luci e tutti a dormire, questa era la regola, anzi, la direttiva, come la chiamavano “loro”. Perché in quel palazzo, o meglio, in quella casa si viveva solo di disposizioni, una dietro l’altra a formare giornate di un rosario malinconico. Insomma, una vita trascorsa a rispettare precetti e divieti, e poi sveglia, colazione, pranzo, passeggiata, cena. Atti vissuti sempre alle stesse identiche ore e consumati nello stesso ordine. L’unica variazione era l’ora legale e quei due mesi venivano aspettati con trepidazione: era l’unica cosa che cambiava lì dentro. No, anzi, si corresse Anselmino, c’era un’altra cosa che cambiava, ogni tanto ti accorgevi che qualcuno a pranzo o a cena non c’era più, ma il posto veniva subito rimpiazzato da uno nuovo. Sì, qualcuno se ne andava sempre, prima o poi, magari se ne andava agli “alberi pizzuti” e non è la stessa cosa, e a tavola ad occupare quel fresco posto vuoto ne arrivava un altro, timido e diffidente, e cambiavano i suonatori ma la musica era sempre la stessa in quel palazzo… Ma non c’era nessuno in giro ed Anselmino s’incamminò in punta di piedi scivolando lungo la parete del corridoio…
Intanto Ninetta, a mezzanotte in punto, si era alzata dal letto. Era già vestita. Avrebbe voluto indossare la gonna nera e lo scialle dello stesso colore che portava il giorno in cui l’aveva incontrato per la prima volta giù, al parco, durante l’ora d’aria, ma Anselmino l’aveva dissuasa… Metti i pantaloni, sono più pratici, le aveva detto…
Ma poi dove andremo?… Aveva chiesto perplessa Ninetta.
Non ti preoccupare, arriviamo alla stazione e prendiamo il treno, conosco una persona, si chiama Oreste e non è un amico, è molto di più, è come un fratello per me, vedrai ci ospiterà per qualche tempo, l’ho già avvisato, gli ho scritto una lettera, gli ho spiegato tutto…
E lui?… chiese ansiosa Ninetta…
Tranquilla!, è una persona fidata, non ci tradirà, vedrai…
Ma che dirà la gente?…
Ma quale gente?, era scattato Anselmino. Ma non ti rendi conto che noi siamo soltanto un peso? Un peso per tutti, per la società, per i parenti… per noi stessi siamo un peso, se non fosse un altro delitto ci lascerebbero sulla piazzola della superstrada come cani…
E Anselmino aveva preso tra le sue la mano fredda di Ninetta, ma lei l’aveva subito ritirata, era imbarazzata e spaventata nello stesso tempo, temeva gli “aguzzini”, ce n’erano sempre in giro durante l’ora d’aria e non vedevano di buon occhio quegli incontri fugaci tra gli ospiti dei due “bracci” della casa.
E Ninetta temeva soprattutto la signorina Matilde, la dolce signorina Matilde: un energumeno con due spalle così, con due braccia come rami di quercia secolare e due cosce come colonne corinzie dell’Acropoli… Sì, la dolce signorina Matilde, rozza e cattiva come una falce fienaia che, si diceva, legasse i cristiani al letto quando non si comportavano bene, ma il problema era capire quale fosse il bene o il male secondo il particolare metro di misura della signorina Matilde, appunto. E così, per quelle gentilezze, veniva chiamata Kapò dagli ospiti, quando nessuno li sentiva, ovviamente…
Ninetta aprì piano piano la porta ed un cigolio sinistro le trapassò il cuore, così come qualche mese prima il cuore gliel’aveva trapassato lo sguardo di Anselmino. Occhi liquidi, sinceri, gentili e affascinanti, anche se su un viso forse un po’ stanco. E così Anselmino e Ninetta si erano cercati, quando potevano beninteso, quando gli “aguzzini” non li tiravano via l’uno dall’altra, quando per un attimo si salutavano nella sala mensa, quando Anselmino furtivamente le aveva lasciato il primo biglietto e la piccola palla di carta era rimbalzata sul bordo del tavolo ed era caduta a terra rotolando e Ninetta non la distingueva bene per quel suo difetto alla vista, l’aveva cercata inutilmente con il piede, allora aveva fatto cadere una posata e si era chinata e poi aveva tastato il pavimento e l’aveva trovata finalmente quella carta stropicciata, giusto in tempo, appena prima che arrivasse il guardiano di sala… No no, non è niente, aveva timorosamente balbettato lei, Ninetta… Mi è caduta la forchetta… Ma quella “furbata” era valsa veramente la pena, perché il biglietto parlava di un amore profondo, in un qualcosa che la turbava come donna, di un sentimento che non credeva ancora possibile, soprattutto dopo che era stata reclusa in quella casa lì, quella che era una vera e propria “casa circondariale”, tale e quale… E da quella prima volta i bigliettini di Anselmino si erano succeduti in maniera frequente dal contenuto sempre più audace, fino a quello atteso e decisivo… È per domani sera, a mezzanotte…
Ninetta avrebbe voluto rinunciare. Ninetta aveva paura, ma poi interrogò se stessa e si vide sola al mondo. Gli ultimi mesi le trascorsero davanti e riconobbe che da quando aveva incontrato Anselmino era tornata a viverla la vita anziché subirla, nonostante i patemi e le trepidazioni, anzi, forse erano state proprio le ansie a rendere intrigante quell’ultimo pezzo della sua vita, e con il pensiero Ninetta aveva accarezzato il viso stanco di Anselmino quasi a volergli cancellare sul volto il dubbio sulla sua fedeltà…
Sicché Ninetta percorso il lungo corridoio che conduceva alla parte centrale dell’edificio, là dove dal lato opposto arrivava anche il reparto maschile. Per fortuna non c’era sorveglianza e proprio lì stava aspettando Anselmino.
Quando lo vide Ninetta sentì mancare le gambe, la tensione le si stava sciogliendo nel sangue come quelle pasticche che sfrigolano nell’acqua. Si guardarono un istante, l’emozione era forte, le impediva di parlare, si abbracciarono. Ninetta sussurrò qualcosa, ma Anselmino le pose delicatamente l’indice sulle labbra… Aveva gli occhi velati Anselmino, sembrava innamorato, rintontito e assente come quando si ha davanti una cosa incredibile e meravigliosa, e si guardarono di nuovo l’un l’altra negli occhi come se il tempo si fosse fermato e si baciarono delicatamente, e trovarono le loro bocche e le loro lingue, ma poi ad entrambi sembrò di sentire un rumore e quell’imprevisto li svegliò dal torpore. Allora Anselmino prese per mano Ninetta e insieme si diressero vero la porta principale.
E adesso?... chiese Ninetta.
Ho la chiave, rispose lui secco.
Ma… ma… balbettò Ninetta.
Ne ho rubata una copia!
Ninetta avrebbe voluto chiedere come, quando, ma si rese conto che non era il momento, né tanto meno c’era tempo per le spiegazioni. E la serratura scattò docilmente, una, due, tre mandate, sembrava una cassaforte, ed in fondo era vero, lì, dietro quella porta c’era il giardino, un primo pezzo di libertà, di quel bene più prezioso del tesoro già inestimabile della vita.
Anselmino aiutò Ninetta a scendere i pochi gradini ed entrambi sentirono gli scricchiolii della ghiaia sotto le scarpe, ormai il più difficile era fatto, quella voglia di vivere una vita indipendente stava per essere appagata, era a portata di mano, anzi, di piede, era a pochi metri, oltre quella sbarra abbassata con le lucine gialle lampeggianti e oltre quel cancello di ferro battuto così vecchio e triste… E poi?
Del poi Anselmino e Ninetta non si erano posti il problema. O meglio, avevano fatto finta di non porselo quel problema, per non scoraggiarsi, per non dover rinunciare a quel loro singolare, o quanto meno audace, progetto. Per adesso sarebbero andati da Oreste… Poi si vedrà, si era detto Anselmino.
Oreste era generoso, una persona cara, una di quelle che se ne trovano poche in giro. Sì, avrebbe aiutato Anselmino a sbarcare il lunario, magari gli avrebbe trovato anche un lavoretto, un lavoretto leggero, poco pesante, che so, consegna pacchi, piccole commesse. In fondo lui, Anselmino, gliene aveva fatti tanti di favori ad Oreste, non ricordava bene ma gli sembrava che una volta gli aveva salvato anche la vita, perché Oreste era rimasto ferito, in guerra, ma ne era passato così tanto di tempo che Anselmino non ci avrebbe giurato su come fossero andati veramente i fatti…
Ma quando Anselmino e Ninetta stavano già a metà del vialetto, si accesero all’improvviso delle luci. Dei potenti riflettori illuminarono Anselmino e Ninetta come se fossero al centro stesso di uno spettacolo, in teatro o al circo, e in mezzo a quella luce intesa e accecante si sentì una voce penetrante e cavernosa…
Dove volevate andare fanciulloni?…
E subito dopo venne fuori la sagome della signorina Matilde detta “Kapò”…
E allora fanciulloni?… ripeté beffardamente con le braccia muscolose appoggiate ai fianchi. E subito due figuri, due lanzichenecchi, in camice bianco si diressero verso Anselmino e Ninetta che si lasciarono docilmente separare per farsi riaccompagnare nelle rispettive stanze. E sembravano due cani bastonati, curvi da far pena: ottanta primavere lui e lei che contava settantotto anni compiuti da appena pochi giorni. E da lontano, sulla porta d’ingresso, sembravano ancora più piegati e piccolini.
Ninetta, timida e riservata, non aveva nemmeno il coraggio di guardare Anselmino, se avesse potuto avrebbe scavato una fossa lì per lì e ci si sarebbe messa dentro e Anselmino, invece, si fermò un attimo proprio sulla porta a guardare in alto quell’insegna appesa al muro, quell’insegna luminosa che indicava:
Casa di riposo
VILLA SERENA
Anselmino guardò l’insegna e sospirò, non sembrava molto convinto, forse si stava chiedendo come fossero stati scoperti, chi li aveva traditi, o forse pensava già ad una prossima “riscossa”, chissà, ma poi proseguì sottobraccio al suo lanzichenecco.
E la signorina Matilde, rimasta in giardino a controllare fino all’ultimo il rientro nell’ovile delle pecorelle smarrite, pensò alla retta che anche per i mesi a venire era assicurata, ai figli di quei due cristiani che s’erano sperticati in raccomandazioni… La prego signorina un occhio di riguardo per i nostri genitori… Ci faccia stare tranquilli e senza pensieri… Che erano così premurosi, che si preoccupavano così della salute dei loro cari “vecchietti”, che avevano lasciato ben volentieri alla Casa di Riposo…
E la signorina Matilde sorrise ironicamente e buttò nel secchio della spazzatura il foglio di carta spiegazzato che aveva in mano: la lettera che Anselmino credeva di aver spedito a quel suo amico, ad Oreste, per metterlo al corrente della sua fuga d’amore, ma la lettera in verità non era mai partita.
Kapò sorrise di nuovo malignamente sotto i baffi come un diavoletto e sentenziò con quella su voce roca… Che zozzi! … Poi ordinò di spegnere la luce dei riflettori.
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