Questa volta il dolore era arrivato inatteso: un macigno franato dietro allo sterno, un’ancora che strappa le cime. La morsa stava dando una stretta al collo che arrivava fino ai denti, a quelli che mi erano rimasti. Mi ero abituato a quelle bufere senza preavviso, ma non mi era mai capitato di sentirmi male nel bosco. Lì pensavo che non potesse succedere mai.
Il medico del paese, un mio vecchio e caro amico d’infanzia, mi aveva diagnosticato un’ “Angina instabile” già lo scorso Natale, quando un episodio simile aveva rovinato la festa a tutti durante il pranzo a casa di mia figlia. I nipotini non avevano capito perché il faro dell’attenzione si fosse spostato da loro, dai pacchi colorati, dall’albero di Natale stracarico di addobbi, al nonno Gabriele che adesso occupava il loro divano, a gambe alte, con le scarpe appoggiate sul bracciolo in pelle per giunta, cosa che a loro spesso era rimproverata a suon di sculaccioni.
Di quei momenti ricordo chiaramente il senso di disagio, l’imbarazzo di provocare disturbo, il forte malessere che implodeva dentro. Guardavo affollarsi intorno tutti quei volti allarmati e sullo sfondo intravedevo l’abete rosso coi lucciconi. L’albero rubato al bosco, un po’ come me, soffriva sforzandosi di sorridere, cercava di parere allegro per non rovinare quel giorno di festa, mentre la linfa vitale a circolazione interrotta lo lasciava lentamente in affanno.
Le strette al cuore, come le chiamavo io, erano tornate altre volte: a casa, mentre tagliavo la legna per il caminetto e giù in paese tra i banchi del mercato settimanale.
Nel bosco mai. Non in quel luogo amico. Fin da bambino, quando mio padre mi portava per funghi, avevo l’sentito vicino: un ambiente malinconico, dolce e severo allo stesso tempo, proprio come il papà.
Da piccolo la sera, con altri bimbi del paese, ascoltavo rapito i racconti sulle creature magiche che popolavano i boschi: gli abitanti delle vallette scure e delle caverne giù al Buoro. Alcune donne anziane, che tra le contrade non si vedevano mai, apparivano dal buio nella stalla rischiarata dai lumi e narravano a voce bassa storie bellissime. Ad occhi chiusi, mi facevo trasportare nel mondo della magia da quei bisbigli rochi che veleggiavano tra i vapori del fieno.
Andrea, il futuro medico condotto, era riuscito a convincermi che quelle erano delle vere streghe. Qualche anno fa ha anche scritto in un suo libro “..le figure nere e curve, nella stalla, erano la stampa in bianco e nero delle ragazze che erano state da giovani, quando coloravano i campi come fiori e si nascondevano coi ragazzi fra i filari dei vigneti, a pennellare l’aria di note d’amore”. E’ diventato un medico poeta.
Quando uscivo di più, la sera facevo una capatina al bar e ci incontravamo lì. Davanti a un buon calice di prosecco, affioravano tra la nebbia del locale, come campanili lontani, i ricordi dei bei tempi passati: di volta in volta, come in echi leggeri, facevano squillare nelle menti richiami diversi, tintinnii quasi dimenticati. Andrea ed io finivamo sempre a prenderci in giro: lui per la mia vecchia passione per i funghi, io per la sua neonata vena poetica.
Credo di avere amato da sempre le mie foreste: fin ragazzo avevo imparato ad addentrarmi tra la vegetazione prima che albeggiasse, appena le brume si erano un po’ diradate e si cominciavano ad intravedere le sagome nere degli alberi. Era ogni volta una sequenza sempre nuova e sempre uguale, con l’erba bagnata che inumidisce gli scarponi, il freddo pungente del mattino che risveglia i sensi, lo sguardo che si abitua poco per volta all’oscurità ed il passo che si adegua, e rallenta.
Il bosco circonda ed avvolge con una solitudine tenera, melanconica. Penetri quasi a tentoni quell’oscurità buona e quando si fa strada in te l’abbraccio della natura, è difficile che tu possa desiderare d’essere altrove.
Sono steso tra le foglie ora. Sto bocconi in questo mare giallo che ha un suo suono silenzioso, ritmato dal vento e dai passi furtivi di qualche piccolo roditore. Ho accanto il tronco cavo di un vecchio faggio, abbattuto come me dal tempo e dalle intemperie. All’interno della ferita legnosa, al riparo dalla pioggia, sono nati centinaia di chiodini.
Sto aspettando che mi passi. Ho un sapore ferroso in bocca e sento l’umidità penetrarmi fredda nei vestiti.
Il ritmo ballerino del mio cuore viene riecheggiato dalla della terra rossa, rimbalza tra i sassi, mi circonda amplificato dal silenzio della radura.
Il panno quadrettato color sottobosco della camicia sta assorbendo gli umori del suolo. C’è un buon profumo quaggiù. Bisognerebbe sempre camminare con il naso a terra, come fanno i segugi, così sarebbe più facile tornare con il cestino pieno, mi è immensamente più chiaro adesso.
Non sono solo. Qui a pianoterra conosco i ricci, il toporagno, la talpa, la donnola, la volpe e il ghiro, al primo piano ci sono gli scoiattoli, i picchi, l’allocco, il barbagianni, la beccaccia, più su, nell’attico, abitano il falco picchiaiolo, il gheppio, il lodolaio, la poiana, e le gazze.
Mi ha insegnato il nonno a conoscere gli animali. Sapeva disegnarli bene. Io mi incantavo per ore davanti ai suoi fogli bianchi tracciati a carboncino. Usava proprio il carbone, quello del caminetto, e ricreava, a piccoli segni precisi, paesaggi bellissimi. Pareva sempre inverno nei suoi disegni, quadri senza colore dove spesso si trasferivano rimpiccioliti, come per magia, gli animali del nostro monte.
Mio nonno non parlava molto. Aveva combattuto nella Grande Guerra da queste parti, vicino a casa e spesso guardava le cose attraverso il velo grigio della tristezza.
Le battaglie vissute al Fronte hanno incorporato la guerra nel paesaggio costellato di trincee, camminamenti, di cippi votivi ammantati dal muschio e dall’ombra della tragedia.
Ricordo una passeggiata in Grappa, noi due soli, nonno e bambino. La direttissima era stata dura per il mio passo non allenato. Il nonno ad un tratto si è fermato. E anch’io ho visto.
La roccia affiorava tra l’erba alta, bionda e stopposa. Mi ha subito fatto pensare ad una cieca vedetta, un soldato scordato al fronte che ascoltava in allerta le vibrazioni crescenti del nostro cammino, memore di altre mille cadenze.
In quel bagliore giallo, in quell’incrocio del tempo, mi è parso di sentire sfilare un corteo di ombre, nomi incisi soffiati dal vento, rosari letti a basse frequenze. Non ho più dimenticato quel momento di racconto silenzioso, di testimonianza sussurrata senza le parole.
A volte il nonno la sera, davanti al fuoco, intonava con la sua voce calda, profonda, le canzoni dei soldati: erano nenie cullate tra uomini, melodie che ricordavano il mormorio del nostro fiume.
Per lui, su tutto troneggiava il Grappa. Sentiva incombere vicina la sua presenza anche in spazi aperti, mentre falciava l’erba in mezzo ai campi, e anche più giù, in pianura, quando si recava al mercato del bestiame. Pareva quasi che si sentisse perduto senza l’ombra del massiccio, una carezza che si allungava sul suo cuore.
Amava scendere nelle trincee, percorrere piano i camminamenti infestati dai rovi, sostare nelle fosse scavate
tra le rocce, fermo in ascolto del vento. A volte stava via fino a notte inoltrata, passeggiava solo, nei campi di battaglia travestiti a pascolo. Quando rientrava a casa aveva lo sguardo di chi torna da lontano. Era Buck a riportarlo tra noi. Sentiva arrivare il suo padrone ancor prima che ne comparisse la sagoma in fondo al vialetto: rizzava le orecchie, avanzava di qualche passo nella corte, in posizione di allerta, poi partiva di corsa e gli andava incontro, lo accoglieva con amore. E sul volto del nonno, commosso da quell’affetto tenero, gratuito, tornava il sereno.
Ho imparato da lui ad amare gli animali.
Fino a qualche anno fa avevo un cane “fungaiolo” che veniva sempre per sentieri con me: era un setter bianco, appena maculato di marroncino, con un’andatura strana, dalle movenze forti ed eleganti di un danzatore. Vorrei tanto che Giò fosse qui adesso.
Sembra che il dolore si stia affievolendo. O forse mi sta solo dando una tregua. Lo conosco ormai bene questo avversario sleale: un monello che ogni tanto nasconde delle tagliole tra i sentieri e poi mi salta in groppa festoso, felice di avermi fatto cadere nel fango.
Mi sento addosso tante paia di occhi in volo. Qui la radura è costellata di nidi. Qualche giorno fa, vicino a casa, ne ho trovato uno caduto a terra, doveva essere un nido di gazza: era intessuto di radici secche, fango, foglie e ramoscelli...e lacci di nailon, di quelli dei sacchetti dell’immondizia.
Ho provato un senso di commozione infinita nel vedere che quell’animaletto indifeso aveva provato a riciclare, senza che nessuno glielo insegnasse, le squallide tracce della nostra evoluzione malata. Mamma gazza si era messa in casa quello che poteva, ha fatto la sua parte.
Ho sempre invidiato agli uccelli la possibilità di avere una prospettiva diversa dalla nostra. La vista dall’alto consente ai riflessi della luce di compiere prodigi. Da ragazzo mi arrampicavo sui castagni e sulle querce di qui e stavo ore a pensare, abbracciato ai loro rami. Immaginavo di sintonizzarmi su sintonie segrete, cercate tra i suoni gracchianti di vecchie radio, e che di lì a poco si sarebbero potuti udire i loro racconti, dei bisbigli coperti dalla cacofonia del giorno, verdi risate corse lontano, fin nei labirinti delle strade vuote giù in paese.
Fin da piccolo ho adorato gli alberi, e i funghi. C’è sempre stata ai miei occhi una sorta di magia nella comparsa di quegli strani fiori lunari.
Nei prati, tra le radici delle piante, spuntano all’improvviso, di notte, nello spazio di alcune ore. Fiorite in angoli nascosti o sfacciatamente in vista, queste famigliole in viaggio da altri mondi ispirano tante credenze piene di fascino. Questo che ho accanto è un mazzo cespitoso di chiodini di faggio: hanno un odore forte, che assomiglia a quello di un formaggio francese.
Non sono mai stato un gran raccoglitore, non faccio provviste, mi piace andare alla ricerca. Questa mattina quando sono partito non ho neanche portato con me il cesto di vimini.
Provo piano ad alzarmi, ho deciso. Se questo farà tornare la fitta, pazienza. In fondo ne ho già provate tante, di fitte al cuore. Sono stato da queste parti tante volte, anche con lei.
Non venivamo per funghi. Ricordo ancora la prima volta che mi ha seguito nel bosco, tra gli alberi: la tenevo per mano e quasi non mi accorgevo di stringergliela così forte mentre cercavo un posto per noi. Me l’ha detto lei, molto tempo dopo, che è stata quella stretta così decisa, ma rassicurante, a sciogliere tutti i dubbi.
Perché pensieri ce n’erano, anche per me ovviamente: non eravamo liberi, ma ormai ci amavamo. Ricordo che ogni tanto alzavo gli occhi da lei e per qualche attimo davo uno sguardo in giro. Lo facevo d’istinto, più che perché avvertissi davvero una possibilità di pericolo. Lei invece si abbandonava del tutto, fiduciosa. Entrava in sintonia con la natura, con me.
L’amore fatto così è quello vero. Il sangue scorre veloce, come il torrente ansioso di gettarsi nel fiume più a valle, la pelle rabbrividisce per il contrasto tra l’erba umida e il calore delle carezze, sui volti si dipingono luci ed ombre pennellate dal sole che penetra a lame tra le fronde.
Il bosco accoglie generoso tra i suoi canti a contrappunto i dolci sussurri degli amanti.
Ogni volta poi la lasciavo di fretta dopo averla tenuta ancora forte per mano, ancora per un po’. Lei aveva ancora voglia di parlare, di raccontarmi, di chiedermi, di attardarsi nel gioco.
Invece io sentivo forte il dovere di andare.
Con il passare del tempo si è abituata a questa mia inquietudine: appena si accorgeva che mi allontanavo coi pensieri, mi lasciava scappare. Ho amato quella donna, e il suo amore per me.
Ho fatto fatica ad alzarmi, come se le membra fossero addormentate. Non saprei dire per quanto tempo sono rimasto a terra. Pare che il brutto sia passato.
Incomincia a piovere. La pioggia qui dentro è meno intensa, più gentile. Il tappeto di aghi di pino e foglie secche fatica a bagnarsi del tutto, è soffice sotto gli scarponi e attutisce i passi. Vado piano, mi muovo molto lentamente appoggiandomi al bastone.
Mia figlia vorrebbe che portassi sempre con me il cellulare, ha rifornito tutta la famiglia di quegli odiosi intrusi squillanti. Mai e poi mai accetterei di sentire quell’ingombro nel taschino qui, nel bosco. Ho un coltellino, le cartine, il tabacco e i fiammiferi e il disegno della Madonna che ha fatto il nonno.
Nel cuore ho tutti i ricordi buoni, mille sensazioni belle e gli occhi birichini della mia lei di tanti anni fa. E una specie di indolenzimento nuovo che non conoscevo.
Sarà l’emozione. Sono sempre stato uno che si commuove facilmente e qui, tra la natura, capita spesso di imbattersi in immagini quasi sacre, davanti alle quali accenderesti una candela. Una volta, durante una passeggiata mi è capitato di vedere un alberello nuovo, ancora un po’ spelacchiato, ma sicuro del fatto suo, cresciuto da un tronco secco adagiato in mezzo ai ciclamini: un inno silenzioso alla vita.
Non mi sono mai vergognato di piangere per queste cose. Alcuni pensano che sia una prerogativa dei vecchi e dei bambini, quella di avere la lacrima facile. Io credo che invece dipenda da quanto lasci entrare le cose in te. Di chiavi, a casa mia, non ne ho mai volute.
Deve essere pomeriggio inoltrato. Il cielo livido, fuori dalla vegetazione fitta, non dà un’idea precisa di che ora possa essere, ma intravedo alcune luci accese giù nella mia contrada.
Il baffi di fumo sostano nei paraggi dei comignoli. Ha smesso di piovere, fra un po’ si alzerà la nebbia.
Domenico mi saluta dalla finestra. Probabilmente era in pensiero: è molto tardi e non torno mai dopo l’imbrunire. Lo rassicuro con un cenno affettuoso. Va tutto bene. Sono qui.
Spinet abbaia festoso, mi ha sentito arrivare. Ormai è quasi cieco. La porta di casa non è chiusa a chiave. Non c’è nessuno dentro a cui dire “Sono arrivato”.
Telefonerò ad Andrea più tardi, gli racconterò del malore e di tutto il resto, mi farò anche visitare, da bravo paziente. Magari poi ci faremo una tazza di buon brulè, a finestra aperta, per lasciare entrare il respiro del bosco.
Però prima voglio un minuto per me, per ringraziare in silenzio la Madonna del nonno, per la bella giornata.
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