Quel lunedì mattina di settembre che gli tolsero il fischio della sirena del Linificio, credette di essere morto per davvero.
Stava nascendo una delle ultime albe tiepide di quell’estate sventurata, in cui ebbe la certezza che dovesse terminare la sua vita, se non proprio quella fisica, almeno quella che valeva la pena di vivere.
Era sul balcone di casa, come faceva ogni mattina, a guardare la monotonia della strada che gli passava sotto.
Stava sprofondato dentro la sedia a rotelle, che ormai era diventata la dimora sulla quale trascorreva la maggior parte del suo tempo. Se ne separava ormai soltanto per andare a letto e per andare al gabinetto. Perché aveva giurato a se stesso e al mondo che non avrebbe mai accettato di farsi accompagnare anche al cesso.
Fino a che gli fosse rimasto anche un solo filo di forze dentro il corpo arrugginito, l’avrebbe usato per andare al gabinetto da solo. Il giorno in cui non ce l’avesse più fatta, comunque non avrebbe accettato di farsi accompagnare. Se la sarebbe fatta addosso. Se proprio lo dovevano aiutare, l’avrebbero dovuto fare fino in fondo, cambiandolo e ripulendolo come un neonato.
Perciò, nonostante la condizione di novantenne stagionato, con il corpo piegato dagli anni, da due guerre, da una vita di duro lavoro e da una caviglia lussata di recente, in bagno ci andava ancora da solo, appoggiato ad un trepiedi di alluminio.
Per il resto, ormai da diversi mesi, aveva dovuto cedere alla crudeltà della vecchiaia e aveva accettato la comodità della sedia a rotelle.
Appoggiata sul tavolino alla sua sinistra c’era la solita scodella piena fino all’orlo di caffé caldo, lungo un’eternità, che beveva a sorsi da passero e faceva durare tutta la mattina.
Quando vide passare sulla strada sotto di lui l’Apecar del panettiere, che andava a fare il giro quotidiano delle consegne, gli affiorarono i primi dubbi. Aveva riconosciuto il lamento del motore, ed era sicuro di aver visto che si trattava proprio del panettiere, nonostante l’alba non avesse ancora completato la sua esibizione di luce.
A quel lunedì mattina mancava qualcosa, ne era certo. Cercò di sforzarsi, ma la sua mente di vecchio non ne volle sapere di smuovere i sedimenti della memoria. Gli dava fastidio il non riuscire a comprendere cosa lo inquietasse. Diede la colpa all’età e bevve un altro dei tanti sorsi di caffé lungo.
Riprese la posizione comoda, dentro la sedia a rotelle, con le braccia appoggiate ai braccioli e la bocca leggermente aperta. Così prendeva aria anche l’instabile impalcatura della dentiera.
Gli occhi fissavano un punto qualsiasi del vuoto di un’alba tranquilla. Il profumo tenero dei gerani, dentro i portavasi appesi al balcone, ammorbidiva la fragranza di un mattino all’apparenza normale.
Eppure c’era qualcosa che non andava. Qualcosa che non riusciva ad individuare lo rendeva irrequieto. Passò in rassegna le azioni che regolavano la quotidianità. Le pastiglie le aveva prese, il caffé era lì sopra il tavolino, in bagno c’era andato. Non era il giorno della pensione, ne quello della visita settimanale del medico. Il panettiere era già passato.
Poi un fulmine improvviso gli s’infilò dentro la testa e si fece largo fra le spesse ragnatele della vecchiaia.
“Cazzo, non è suonato il fischio!”
Il corpo gli s’irrigidì in un movimento repentino, come se volesse alzarsi di scatto e correre lui stesso da qualche parte, per rimediare a quella dimenticanza, che, a suo avviso, poteva anche significare la fine del mondo.
Le sue ossa tarlate scricchiolarono come le molle del letto di un carcerato e la spina dorsale, ormai ridotta ad una gamba di sedano, si rifiutò di flettere quel tanto che bastava per dargli la spinta necessaria per alzarsi.
Allora pensò che no, non era possibile che la sirena del Linificio non avesse fischiato. Il panettiere doveva per forza avere anticipato l’orario delle consegne. Solitamente passava sotto il suo balcone dopo che era suonato il fischio. Ma forse era proprio in anticipo.
Nello era un uomo che dalla vita non aveva ricevuto niente in omaggio. Tutto ciò che possedeva se l’era sudato, e quello che non era riuscito ad avere, era perché qualcuno glielo aveva rubato. Perciò la semplice spiegazione dell’anticipo del panettiere non gli bastò per giustificare una dimenticanza dalla gravità così imperdonabile.
Si confrontò con l’orologio. Teneva nel taschino sinistro dell’inseparabile giacca la cipolla d’argento lavorato, annerita dal tempo, che gli aveva regalato sua moglie, molto più di mezzo secolo prima.
Fece fatica a levarlo dal taschino della giacca. La posizione insaccata nella sedia a rotelle e la gabbia della vecchiaia gli lasciavano soltanto una sterile manciata di movimenti da poter compiere.
Gli riuscì dopo tre o quattro tentativi. La aprì e la guardò strizzando gli occhi. Segnava le sei e cinque minuti. La guardò una seconda volta e lesse la stessa ora. Non si fidò degli scherzi della presbiopia e la guardò una terza volta, piegandola e rigirandola per avere una luce migliore. Gli confermò le sei e cinque minuti.
Si passava la mano ruvida sulle dune delle rughe impietose che gli rigavano il volto e si inumidiva quel che gli restava delle labbra, ricurve verso l’interno della bocca, a causa della mancanza di alcuni denti.
Poteva essere stato tradito dalla memoria, che gli aveva nascosto il ricordo di un fischio suonato soltanto pochi minuti prima. Tutto sommato era un tradimento comprensibile, alla luce dei novant’anni suonati. I ricordi più antichi gli erano rimasti incrostati dentro la testa, ma quelli più recenti erano soltanto polvere, che gli svolazzava intorno e poteva solo sperare che gli si posasse sopra, per coglierli.
Ma Nello si riteneva più forte della vecchiaia. Si sforzò di ricordare se quella mattina il fischio non era stato suonato.
Poteva essere stato tradito dell’orologio, che da più di sessant’anni lo accompagnava, alloggiato nel taschino, e non aveva mai perso un colpo. Il tradimento dell’orologio a cipolla era un po’ più duro da accettare. Significava che era stato abbandonato anche dall’ultimo cimelio che lo teneva legato al passato.
Antonia era morta ormai da troppi anni. Tutti gli amici di gioventù erano passati alle grazie del Creatore. La cascina dove era nato era stata ricostruita e trasformata in un alveare di appartamenti per immigrati. La prima casa in cui visse da uomo sposato era stata abbattuta. Le certezze politiche della gioventù erano diventate illusioni, e quelle religiose ansimavano come mocci di candele vecchie.
Solo la cipolla era un simbolo del passato rimasto vivo nel presente delle sue novanta e più primavere. Se anche questo cimelio d’argento invecchiato avesse smesso di funzionare, sarebbe rimasto lui il solo testimone del suo passato. Ed era troppo evidente che il prossimo a cui sarebbe toccato di lasciare il presente era proprio lui.
Ma se a tradirlo era stato il fischio della sirena del Linificio, allora la faccenda si faceva veramente più grave.
Allora forse per davvero non gli valeva più la pena di vivere. Allora avrebbe anche accettato la morte, perché se non c’era il fischio, significava che tutto in torno a lui era morto. Ed era tutto morto, perché era terminato il tempo.
Sì, perché il tempo della vita era regolato dal fischio del Linificio. La sirena suonava ad ogni inizio e ad ogni fine turno di lavoro degli operai. Suonava anche agli orari degli impiegati, che facevano giornata. Suonava anche all’ora della pausa per il pranzo.
Le giornate erano scandite dal fischio non solo per i lavoratori dipendenti del Linificio, ma per tutta la popolazione del paese. Qualsiasi attività era impostata secondo i ritmi quotidiani dettati dal fischio.
Anche i tempi degli amanti, ufficiali o clandestini che fossero, erano scanditi dal fischio del Linificio. Le madri ruvide erano meno crudeli con le figliole che rincasavano con il fischio, anche se non era sufficiente per fugare il sospetto di incontri amorosi. E gli amori clandestini erano più sicuri, se i tumulti della passione riuscivano a rimanere dentro gli argini temporali scanditi dagli ammonimenti del fischio.
Anche il panettiere, ormai da generazioni, regolava la partenza per il suo giro delle consegne con il fischio delle sei.
Ma il fischio del Linificio non era soltanto lo sterile orologio del paese, che ne regolava i ritmi quotidiani della vita. Il fischio era anche capace di avere e dispensare emozioni. Piangeva e gioiva con tutta la popolazione, durante i momenti di festa o nelle disgrazie. La gente si ritrovava unita nella felicità o nel dolore sotto l’identità unica e insindacabile del fischio.
Durante l’ultima guerra il fischio avvertiva, con il suo ululato lamentoso, l’arrivo dei bombardieri. Nello ricordava come fosse ieri quel mattino d’inverno, dal freddo graffiante, in cui il Linificio fu sventrato dai bombardamenti. E, dopo una mezzora d’inferno, fra i tuoni delle bombe, i sibili degli arerei a bassa quota e l’odore rancido di fumo e di morte, il fischio stracciò il cielo infiammato e polveroso, come a dire che, nonostante tutto, l’anima del Linificio e di tutto il paese erano ancora vive.
Il fischio annunciava l’inizio dei giorni di festività, le grandi ricorrenze, gli avvenimenti straordinari e anche i momenti tristi.
Il venerdì Santo, alle tre del pomeriggio, un sibilo malinconico abbracciava l’atmosfera e tutto il paese si fermava in una simbolica genuflessione. Le saracinesche dei bar e dei negozi si abbassavano. La gente, ovunque si trovasse, per qualche istante smetteva l’attività che stava svolgendo. Tutti contemporaneamente, al suono del fischio.
Suonò di una tristezza delicata anche quella sera tiepida di fine primavera, quando morì lo storico direttore dello stabilimento.
Nello non aveva mai avuto modo di frequentare quell’uomo piccolo, un po’ troppo rotondo, con gli occhiali quadrati, che con coraggio ed equilibrio traghettò le sorti del Linificio attraverso gli anni duri della guerra e quelli difficili delle contestazioni. Ma da uomo cresciuto con i piedi nudi sulla terra, ne riconosceva la grandezza d’animo e la nobiltà dei sentimenti, nonostante fossero persone diametralmente opposte.
Stava cenando con la solita minestra di passato di verdura, quando il fischio, quasi chiedendo scusa per il disturbo, s’impossessò dello spazio della sua cucina e di quello di tutto il paese.
“Cazzo, è morto!”
E versò lacrime, lui che aveva pianto solo tre volte nella vita, in ricordo di un uomo che in fondo non aveva mai conosciuto.
Il fischio del Linificio ululava potente anche per avvisare dell’arrivo delle grandi piene del fiume. L’ultima volta successe di notte.
Nello era già un uomo troppo vecchio, ma quando sentì la sirena stracciare in due la notte, si alzò di scatto come un cervo. Prese la bicicletta sgangherata, che non usava più almeno da due anni, e andò alla diga.
In pochi minuti, tutti gli anziani e tutti quelli che sentivano il paese come un’appendice del proprio corpo, si erano ritrovati sull’argine per stringersi intorno alla diga, che lottava per resistere alla furia del fiume insolitamente arrabbiato, chiamati a raccolta dall’inconfondibile richiamo del fischio.
A fronte di tutto questo, a Nello sembrava impossibile concepire una vita senza il fischio del Linificio. Era convinto che ci sarebbe stata soltanto anarchia, e si domandava se allora ne fosse valsa la pena di continuare a vivere.
Ma proprio per questo gli tornava difficile credere al tradimento del fischio, e faticava a convincersene, mentre l’alba di fine estate incominciava ad intiepidire una giornata a suo modo particolare.
Accelerava il ritmo dei sorsi alla tazza di caffé, nonostante fosse ancora bollente, per ingannare l’inquietudine e l’insofferenza ad una situazione che lo infastidiva. Snocciolò una raffica di bestemmie contro chiunque si fosse permesso di tradirlo.
Si liberò della felpa che aveva sulle spalle, che credeva dargli fastidio. No, non poteva essere stata la memoria a tradirlo, anche se ormai era incatramata dagli anni. Il fischio delle sei, quella mattina inquieta, non c’era stato.
Governò la sedia a rotelle fin dentro la casa, dopo aver superato a fatica e a bestemmie lo stipite della portafinestra. Guardò la pendola di legno tarmato appesa al muro e la confrontò con la cipolla che teneva ancora stretta dentro la mano. Segnavano lo stesso, identico orario. Se ne convinse.
Gli avevano tolto il fischio.
Gli rimaneva ancora un sottile filo di speranza. Che qualcuno si fosse dimenticato di suonare il fischio delle sei. Sarebbe stata comunque una dimenticanza grave, che secondo lui meritava anche la pena di morte, ma ci volle rimanere aggrappato, perché si trattava dell’ultimo filamento di un’illusione, che gli avrebbe permesso di vivere ancora. Almeno fino alle otto.
Era l’orario in cui avrebbe dovuto suonare il prossimo fischio e Nello decise di aspettarlo al varco con pazienza, come si fa con un premio meritato o con un nemico giurato. E lo volle aspettare nonostante tutto.
Avrebbe resistito anche all’insistenza della morte, qualora gli si fosse presentata prima di quell’ora. No, non sarebbe morto. Almeno fino alle otto.
Uscì di nuovo sul balcone, questa volta con meno difficoltà. Decise di attendere lì il momento più importante di quella giornata che stava cominciando a dargli sui nervi. Mentre il sole stava prendendo pieno possesso del cielo terso di fine estate.
Martoriava con il ticchettio delle dita da falco della mano sinistra il bracciolo della sedia a rotelle. Stessa sorte dovette subire anche la tazza del caffé, sollevata e riposta un numero incalcolabile di volte.
Sorbiva la brodaglia scura a sorsi brevissimi e a smorfie malcelate, calcolando che doveva durare fino all’arrivo del prossimo fischio della sirena del Linificio, o almeno fino all’orario in cui avrebbe dovuto suonare.
Sulla strada che correva sotto il suo balcone passavano le automobili e le motociclette, in paese era iniziata la monotonia della vita di un lunedì qualsiasi. Il tepore si stava trasformando in caldo umido e i rumori della quotidianità incominciavano ad occupare lo spazio e il tempo di quella giornata.
Negli ultimi vent’anni aveva puntato i piedi a terra e si era aggrappato con le unghie ai muri, per riuscire ad allungare il più possibile ogni minuto della vita, per rallentare l’inesorabile marcia di avvicinamento al giorno della morte. Aveva vissuto con intensità ogni istante, riempiendo ogni attimo, consumando fino al nocciolo ogni granello di tempo, evitando di perdere anche il più piccolo secondo di vita.
Ora gli si erano piantate davanti due ore, che avevano tutta l’aria di essere eterne, e sentiva di non riuscire a trascorrerle così com’erano. Sperava che fossero brevi, che si consumassero come un fiammifero, anche se sapeva che in fondo a quelle due maledette ore poteva anche trovarci la morte ad attenderlo.
Non gl’importava.
Non che si sentisse ormai sconfitto dal destino e si augurasse che la morte lo venisse a prendere in fretta, ma non resisteva al tremore della pancia e delle gambe che gli aveva innescato come una bomba, o come una pestilenza, l’ardore dell’attesa.
Era come se fosse tornato bambino. Capriccioso, odiosamente intollerante e agitato. Con la mano destra tormentava in continuazione l’ormai pellaccia intorpidita che dormiva per sempre dentro la patta dei pantaloni, come fanno appunto i bambini quando sono agitati.
Ma il tempo non aveva alcuna voglia di passare, e l’orologio a cipolla glielo confermava ogni volta che veniva interpellato, quasi prendendolo in giro.
Allora non gli rimase che provare a rilassarsi. Si liberò della rigidità in cui aveva costretto i muscoli e le ossa, si lasciò sprofondare nella sedia a rotelle, chiuse gli occhi e aprì leggermente la bocca, come i coccodrilli. Si inumidì le ruvidità delle labbra con la punta della lingua, pizzicandosela con i peli ispidi della vecchiaia.
Provò allora a dare retta all’idea di ricordare la sua vita. Almeno quei pensieri sarebbero stati sufficienti a colmare il vuoto enorme di due ore.
Che si trattasse di riportare alla luce i ricordi piacevoli o quelli tristi non gli importava poi tanto. L’importante era soltanto che gli ritornassero alla mente, per aiutarlo a riempire il tempo. Poi, alla sua età, i ricordi avevano ormai perso le sfumature dei sapori e la fragranza dei profumi, ripulendosi da ogni connotato che li avrebbe classificati da una parte o dall’altra. A novant’anni suonati, i ricordi erano importati in quanto tali, per nient’altro.
Trovò sollievo nel rivisitare a casaccio fra i momenti di una vita. I ricordi gli tornavano alla mente in bianco e nero. Li sfogliò come carte da gioco, e si accorse che quasi cent’anni erano trascorsi in un baleno, veloci come il bacio di un’amante. Si rese conto che la vita è troppo breve. E qualche stronzo aveva avuto la brillante idea di rovinargliela proprio sul finale, togliendogli il fischio.
I minuti passavano. A fatica, ma passavano, inanellati uno dietro all’altro. L’orologio glielo confermava.
Aveva ormai terminato la tazza di caffé eterno e il momento dell’ultima verità della sua vita si stava avvicinando. Si sentiva molto agitato ed emozionato. Gli pareva che gli scappasse di orinare.
Con uno sforzo al limite delle sue capacità, facendo leva sui braccioli e sull’orgoglio di uomo indomabile, si alzò dalla sedia a rotelle e si aggrappò al trepiedi di alluminio. Entrò in casa e raggiunse il bagno, con passi brevi e lenti come l’eternità. Sentiva la vescica in disordine a causa dell’agitazione.
Si slacciò la cintura dei pantaloni e se li lasciò scivolare fino in fondo alle caviglie, così anche le mutande. Si sedette sulla tazza, e orinò come fanno le donne. Aveva cominciato a orinare da seduto quando aveva intuito che non gli ritornavano più risposte dell’ormai assopita appendice carnosa, a causa della vecchiaia, e gli tornava difficile tenere la mira.
Nonostante l’impegno e l’urgenza che sentiva spingere in fondo alla pancia, tutto quello che gli riuscì di espellere, si esaurì solo con due brevi schizzi, come quelli dei cani che segnano il territorio. Tutto lì.
Allora, aggiustato ogni impegno con i rottami del proprio corpo e ripreso pieno possesso della situazione, decise di attendere l’arrivo delle otto sdraiato sul letto. Non doveva aspettare poi molto.
Si era rivestito a dovere. Aveva anche messo una cravatta, prima di sdraiarsi, senza spostare il copriletto. Se il fischio non avesse suonato nemmeno alle otto, allora in quella casa sarebbe potuta entrare anche la morte, non gl’importava più niente. Però si voleva far trovare preparato, vestito almeno con decenza.
Nella mano destra teneva la cipolla, assicurata con la catenella d’argento arrotolata attorno alle dita. La guardò. Segnava quattro minuti alle otto. Volle attendere allungato, ma con gli occhi aperti.
Quella manciata di minuti risultò interminabile, tanto che gli sembrò che l’aria della stanza cominciasse a puzzare di muffa. Quando la lancetta scattò sulle otto, il respiro gli si fece più profondo, il battito del cuore accelerò e dentro la pancia gli parve che tutto dovesse scoppiare da un momento all’altro. Gli sembrò anche di non farcela a trattenere quello che non gli era riuscito di fare prima in bagno. E gli tremavano i piedi. Mai successo prima.
Tutto il corpo s’irrigidì fin quasi a spezzare i legamenti ormai logori che lo tenevano insieme, ma le orecchie non avvertirono il fischio. Continuò a guardare la cipolla, fino alle otto e cinque minuti.
Allora si rese conto che il fischio non aveva suonato, e non l’avrebbe fatto mai più. Non valeva più la pena di vivere. Ora, se ne avesse avuto voglia, la morte sarebbe potuta venire a prenderselo. E chiuse gli occhi.
Rilasciò la tensione che aveva nelle membra. Le ossa scricchiolarono come molle arrugginite. Aggiustò il respiro e chiuse anche la bocca, con le labbra raggrinzite.
Ora veramente l’aria dentro la stanza cominciava a puzzare di chiuso e di troppo vissuto.
Sentì un rumore alla porta. Avvertì rovistare nella toppa. Era proprio venuta a riprenderselo, l’aveva preso in parola. Ma si stupì del fatto che la morte dovesse aprire una porta con le chiavi.
Sentì i passi sgangherati, di scarpe con tacchi consumati, avvicinarsi alla stanza. Mantenne gli occhi chiusi. Avvertì una presenza ingombrante chinarsi sopra di lui.
Intese anche l’odore spiacevole del sudore della domestica.
“Signor Nello, lo sa che da oggi hanno abolito per sempre il fischio del Linificio?”
“Non dica stronzate. L’ho sentito io.”
Le rispose tenendo sempre gli occhi chiusi.
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