Il nome evoca la furia del cielo, il tumulto dei fiumi, la perdita di trasparenza visiva dei vecchi.
Fu a causa della terza accezione di questa parola che quella mattina mi trovai in quella saletta d’attesa dell’ospedale. C’era già il primo vecchietto acconciato come nonna papera, cuffia celeste, camicione bianco, aperto impudicamente sulle terga, ed una specie di calosce usa e getta, di plastica verde leggerissima.
Teneva il capo poggiato contro il muro, il viso rivolto al soffitto, gli occhi chiusi e l’aria del condannato che aspetta l’esecuzione. Il figlio, vicino, sembrava impegnatissimo sulle parole crociate e, quando entrammo, non alzò neanche gli occhi.
Un paio di altri predestinati sedeva in silenzio, lo sguardo inquieto. Le mogli, accanto, non coinvolte personalmente, avevano sciolto una scommessa logorrea su certi loro malanni ben più seri delle sciocchezzuole dei mariti.
Ci sedemmo e venne subito la caposala a prendermi i dati e a mettermi gocce di collirio nell’occhio infelice. “Per dilatare la pupilla” disse.
Tornò dopo un po’, sempre sorridente ed affabile per istillarvi altro collirio, dal momento che la pupilla non era ancora grande abbastanza. Entrò il barelliere e caricò il primo vecchietto, che stentò a salire sul lettino e, nell’imbarazzo, ormai perdeva gli slip un po’ lenti.
Si preparò quindi quello che mi precedeva nell’ordine di chiamata, ma si rifiutò di indossare la cuffia fino al momento della partenza per la sala operatoria. E fece bene, perché quell’aggeggio conferisce al volto degli uomini un’aria cretina, togliendogli anche l’ultima parvenza di dignità maschile.
Quando venne il mio turno anch’io seguii il suo esempio e misi la cuffia solo un attimo prima di salire sulla barella.
Non capisco, però, tutte queste lodevoli precauzioni igieniche, quando camicioni, cuffie e protezioni per i piedi rimangono piegati sul tavolo della saletta d’attesa, alla mercè di borse che vi vengono disinvoltamente parcheggiate sopra, e di colpi di tosse e starnuti dei parenti, oppure quando si è pronti sul lettino, prima di giungere a destinazione alla sala operatoria, si debba attraversare mezzo ospedale, incrociando visitatori e malati di ogni tipo.
Comunque la corsia per corridoi e atri si rivelò utile a me, soprattutto sotto l’aspetto turistico… mi sono goduto i soffitti a volte affrescati ed i lampadari, comodamente steso, mentre il barelliere, da dietro, si raccomandava tenessi le braccia ben distese lungo il corpo, come nel bob, per evitare che in una delle sue ardite virate ci rimettessi un gomito contro uno spigolo.
Giunto in una pre-sala operatoria, cambio barella e nel mio appannato campo visivo si affacciano volti con cuffia e mascherina dalle voci e dagli occhi che si sforzano di non essere impersonali.
Una di queste signore sconosciute mi infila un ago in un braccio e mi mette il bracciale per la misurazione della pressione, un’altra mi pone non so cosa sotto la nuca per tenere ferma la testa.
Rimango lì, dimenticato a lungo. Non ho orologio e comunque non posso alzare le braccia; c’è la luce lattea di un neon che acceca le mie pupille dilatate e, in sottofondo, Dean Martin gigioneggia la sua “I sing amore”, mentre le infermiere, trafficando, parlano di mariti, di figli, di spesa, di serate.
Chiudo gli occhi e mi rifugio nella fantasia.
Quando li riapro, non so dopo quanto, mi sento spostare e su di me incombono apparecchiature con luci piccole e grandi che mi scrutano sfacciate.
Una vocina più vicina mi prende alla sprovvista: “Come si sente?”
“Dice a me?” le avevo sempre sentite parlare tra loro.
“Sì, a lei”.
“Sto bene. Grazie” e mi sforzo di dare un tono più sveglio alla voce.
Poi sento un tono maschile: è arrivato il chirurgo! Lo sento unirsi alla conversazione delle infermiere, mentre Dean Martin, in sordina, attacca “Return to me”.
Un’ombra verde mi sovrasta all’improvviso e la voce del medico, dietro la mascherina, mi chiede: “Come andiamo, signor …?”
“Bene” rispondo esangue e avrei voluto aggiungere: “Se ti sbrighi, andiamo ancora meglio!”
“Adesso stia fermo!” Penso: “E chi si muove?! Son quasi due ore che sto immobile!”
La luce si vela e capisco che sul mio capo è sceso un tessuto trasparente che viene premuto, come incollato, ai lati dell’occhio preso di mira.
“Tenga gli occhi ben aperti, che adesso si comincia”.
“Alla buon’ora!” penso.
Attraverso una specie di velo che mi è stato appiccicato sul viso la luce mi arriva opalescente, come dentro un acquario. Vedo pinze che mi ballano davant e che frugano nell’orbito, ma non avverto dolore. Mi assale, invece, una specie di tensione, che è fatta soprattutto di attesa, per cui le mani mi si stringono attorno ai tubi di alluminio del lettino.
“Fermo…”
“Ma io sto fermo!!” azzardo debolmente.
“Sì, ma le ciglia sbattono e io perdo tempo. E poi, ha certi ciglioni…”
Penso: “Ma senti, questo! Anche i ciglioni, adesso!”
Per il movimento, si vede che si tratta di un riflesso condizionato.
Perché io non mi accorgo di compierlo.
Intanto continua quel tramestio nel mio occhio e io vedo farfalle di luce lampeggiarmi davanti in una atmosfera liquida: ci mancano solo i pesci.
Quante intrusioni sopportiamo nell’arco di una vita, dolorose o meno, nelle parti più intime del nostro corpo! Viviamo queste torture, che ci migliorano e a volte ci salvano la vita, come delle piccole morti, addormentati nella speranza, da cui risorgiamo per altri giorni di dolore.
Finché sarà la morte vera, quella definitiva, a rimestare dentro di noi, straziandoci e traendo, come un simbolo di vittoria, la nostra anima, come fa il pescatore con la perla, per deporla, imparziale, ai piedi del giudice, da brava serva ubbidiente, lasciano il nostro corpo come un abito vuoto.
“Ecco che abbiamo finito! Ha visto come siamo stati veloci. Tutto a posto, signor …” annunciò, a un certo punto la voce trionfale del medico. Dopo di che l’infermiera mi staccò pian piano quella specie di sudario dal volto.
Tornato nella pre-sala, scorsi su un lettino un’altra vittima pronta per il sacrificio. Il barelliere mi guidò, poi, verso il punto di partenza. Ero bendato vistosamente di bianco e quando apparvi sulla soglia, i miei familiari, che orami erano rimsti soli nella sala d’attesa, mi guardarono con gli occhi della preoccupazione.
Stavo rivestendomi quando tornò la caposala con le norme comportamentali, che dovevo osservare nelle prime 24 ore e successivamente per altri 15 gg: non strofinare l’occhio, non compiere sforzi, in particolar modo con la testa china, portare gli occhiali da sole ed applicare giornalmente i colliri.
Il pomeriggio alle cinque dovevo togliere le bende e alla notte portare una conchiglia di plastica sull’orbita, per evitare colpi o traumi.
Quando tolsi le garze fu come nei film, allorché l’eroe cieco operato riapre gli occhi e si vede per la prima volta nello specchio. Io non provenivo dal buio, ma francamente devo ammettere che da quel benedetto occhio ci vedevo molto meglio, in particolar modo da vicino, e mi abbandonai anch’io ad una soddisfatta euforia.
Stato d’animo che, però, non si prolungò per molto.
Nell’arco della serata, esplorando avido con lo sguardo le cose, le persone che mi stavano intorno ed il mio stesso aspetto allo specchio, mi trovai a notare particolari che prima, la mia vista, senza naturalmente nascondermeli, attenuava in una luce di dolce offuscamento.
Intendiamoci, saper evidenziare meglio l’aspetto estetico dei denti, o le macchie della pelle, o i peli luciferini che all’improvviso scoprivo uscirmi, come forme aliene, dal naso e dalle orecchie, non costituiva, specialmente se rapportato ai notevoli vantaggi di cui avrei goduto in altri frangenti, un cruccio da non dormirci la notte.
Però mi sentivo come uno che credeva di avere 10 biglietti da cento euro nel portafoglio e se ne trovava solo due: necessita un ridimensionamento nella progettualità degli investimenti. Vedendo esattamente come stavano le cose anch’io quindi dovevo aggiornare le mie pretese di vita: io sono realmente così e non come mi credevo prima. Sembrerò eccessivo questo risveglio, anche perché prima c’erano pur sempre gli occhiali: ma la differenza c’è e sorprende.
Ed è così che mi viene da ribadire il concetto, secondo cui l’indebolirsi progressivo delle facoltà sensoriali rientra in un disegno naturale e divino per rendere il distacco dalla vita meno violento e traumatico.
Anche Roth nella “Cripta dei cappuccini” accenna a qualcosa del genere: le “ombre” della vecchiaia, da cui la morte si fa precedere, sono fresche e “caritatevoli”.
Della vista migliore c’era necessità, di rendermi consapevole della realtà che mi riguarda e mi circonda, no.
Il giorno dopo era previsto un primo controllo, a cui mi presentai puntuale come al solito. Anche questa volta ci fu una buona mezz’oretta di attesa: in fondo al corridoio si accalcava sulle poche sedie una ventina di persone, fra parenti e operati.
Questi, specie di Blues Brothers a riposo, si riconoscevano, oltre che dai vistosi occhialoni neri, anche dal fatto che erano piuttosto malmessi.
Ognuno degli accompagnatori, comprese le donne, si faceva in quattro per farli sedere e parlare.
Effettivamente, c’era un certo rilassamento, sempre presente dopo una prova passata e superata e c’era tutto uno scambiarsi di impressioni: io vedo meglio i colori, io vedo perfino un capello sulla mano, io vedo un’ombra sulla destra, io, un balenio…
Come una folata di vento arrivò il medico che disse subito all’infermiera: “Facciamo al volo questi operati, dopo di che ci spostiamo…”
E “al volo” fu in effetti il singolare controllo, nel senso che, quando fu il mio turno, non mi ero ancora seduto e non avevo ancora poggiato il mento all’apparecchio degli oculisti che il medico già diceva: “Tutto a posto, signor … Avanti un altro!”
Ed ora sono qui, con un occhio che ci vede meglio e l’altro meno: sbilenco nella vita e nei sogni. |