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Albo d'oro
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Categoria NARRATIVA - 1 ° classificata

ALESSANDRO CUPPINI “LA COLONIA MARINA

Cinquant’anni fa, in quella terra di nessuno che esisteva tra Riccione e Cattolica e che chiamavano chissà perché Abissinia, c’era una vecchia Colonia marina costruita ai tempi del fascio. Le due cittadine erano collegate dalla litoranea, e tra loro c’erano rare case e tanto terreno incolto e sabbioso, punteggiato di cespugli di ligustro e rosmarino. Dietro, c’erano i campi che arrivavano fino alle prime colline: grano e sorgo, frutteti, qualche ulivo. La spiaggia oltre la strada era tutta libera, selvaggia e piena di detriti che non facevano pattume perchè puliti e trasportati fin lì dal mare, ed anzi per noi bambini costituivano ispirazione ed oggetto di giochi sempre nuovi.
La Colonia sorgeva isolata a duecento metri dalla strada asfaltata, enorme sopra le piccole onde di sabbia formate dal vento, come un transatlantico in mezzo al mare. E della nave aveva anche la forma: stretta e lunga, prua e poppa raccordate ai fianchi da un’ampia linea curva. Dalla strada si vedevano tre terrazzi sovrapposti, con i parapetti fatti di tubi, i corrimano sulle scalette, i parapiedi per impedire di scivolare di sotto: proprio come i ponti di una nave. Sui terrazzi si aprivano tante porte tutte uguali, ciascuna affiancata da un oblò, le stanze-cabine. Anche di lontano si vedeva che aveva bisogno di un bel restauro. L’aria salina si mangiava l’intonaco che si staccava scoprendo i mattoni e accumulandosi in polvere ai piedi delle pareti. Quando tirava garbino il vento la sollevava in nuvole turbinose. La ruggine appariva sotto ringhiere e corrimano. In alto appariva il nome in lettere blu alternate alle finestre dell’ultimo ponte: COLONIA MARINA NOVARESE.
Tutti gli anni andavo in vacanza coi nonni a Riccione, per un mese. Un anno avevano preso in affitto una casetta proprio a poche centinaia di metri dalla Colonia. Dalla mia stanza, al mattino, la potevo vedere e avevo notato che qualche imposta delle cabine sull’ultimo terrazzo era aperta; a volte un asciugamano era steso sul parapetto. Dunque qualcuno la abitava, anche se non avevo mai visto nessuno. Non che ci facessi molto caso: il mio interesse di bambino era rivolto alla spiaggia e al mare dove andavo tutti i giorni per giocare con amici temporanei ma indimenticabili, che a volte ritrovavo l’anno dopo. Ma a mezzogiorno e alla sera quando tornavo a casa uno sguardo alla Colonia lo buttavo sempre: aveva un che di inquietante quella struttura vecchia e cadente dall’architettura fuori moda, abitata da fantasmi che non apparivano mai.
La nonna mi aveva detto di non avventurarmi nel tratto di steppa abbandonata tra la nostra casetta e la Colonia perché era ingombra di detriti pericolosi: vecchie barche sfondate dai chiodi sporgenti (Ti pigli il tetano, sai), pezzi di ferro rugginosi, materassi gonfi di umidità e mobili sfasciati. A parte il tetano di cui non avevo mai sentito di uno che l’avesse preso, c’era da farsi male. Nella sabbia c’erano anche tracce di pneumatici, forse il luogo era frequentato di notte da coppiette.

Era la fine di agosto; il tempo era incerto, piovigginava. Non era il caso di andare alla spiaggia; avevo approfittato per portarmi avanti coi cómpiti delle vacanze. A metà pomeriggio però il sole era uscito sfolgorante asciugando in un attimo ogni cosa. Uscii fuori, avevo bisogno di muovermi, di fare due passi. L’aria si era rinfrescata ma il sole era ancóra caldo.
Mi avviai per il terreno proibito verso la Colonia, senza realmente pensare di andarla ad esplorare.
Camminavo a testa bassa badando a dove mettevo i piedi, sicché all’improvviso me la trovai davanti, enorme e minacciosa. Decisi d’impulso di vincere quella leggera ripulsa che mi prendeva ogni volta che la vedevo e mi avvicinai lungo la stradina sabbiosa.
Man mano che mi avvicinavo mi appariva sempre più cadente, molto più di quanto non apparisse di lontano. I primi due ponti, quelli più bassi, erano disabitati, ma l’ultimo aveva tre o quattro oblò aperti, come per dar aria alla stanza. Una tendina bianca svolazzava entrando ed uscendo da uno di essi. Ma chi abitava la Colonia?
La porta d’ingresso era sbarrata, ma non sarei entrato comunque. Avevo intenzione di fare un giro di esplorazione attorno alla nave, tanto per vedere. Arrivai sul retro, che aveva lo stesso aspetto del davanti: le terrazze contornavano simmetricamente tutta la Colonia. Le prime due erano sempre deserte, ma sulla terza, appoggiato al parapetto vidi un vecchio con una pipa in bocca che guardava lontano verso le colline. Quando mi scorse mi fece un cenno con la mano invitandomi a salire. Esitai un attimo (Non dar retta agli sconosciuti che ti chiamano o ti danno caramelle!), ma poi mi decisi. Al centro della fiancata posteriore c’era una scaletta che portava al primo ponte, e poi altre portavano su. E così in un attimo fui sul terzo ponte.
Lassù tirava un’arietta fresca che veniva dalle colline. Con la schiena al muro e la faccia al sole c’era una decina di vecchietti seduti su una panca lungo la parete delle cabine. Sembravano un gruppo di piccioni, quando d’inverno si stringono sulle grondaie per scaldarsi. Erano tutti abbronzati e rugosi, non come me che prendevo il sole un mese all’anno al mare, ma con l’abbronzatura che hanno quelli che passano la vita all’aria aperta. Pensai che fossero contadini.
Mi guardarono sbucare dalla scaletta con uno stupore pari al mio, come se non fossero abituati a ricevere visite. Ricambiarono in coro il mio saluto. Quello che mi aveva chiamato mi si avvicinò: puzzava del sigaro toscano che fumava sbriciolato nella pipa. Mi invitò a sedermi su una panchetta di fronte alla fila di vecchi che mi guardavano con curiosità.
Son veduto a vedere il tramonto, dissi tanto per rompere il ghiaccio.
Uno dei vecchi rispose allegro:
Puoi stare qui finché vuoi.
Un altro intervenne:
Il tramonto…Mio padre defunto diceva sempre: il tramonto è il più bello spettacolo del mondo, ed è gratis.
Mi parve buffo che quel vecchio decrepito avesse voluto precisare che suo padre era defunto.
Tutte le robe più belle sono gratis, disse un altro, e diede l’avvio ad una specie di coro:
Nuotare in mare è gratis…
Anche correre…
E cantare…
Svegliarsi al mattino senza i dolori reumatici e poter scendere dal letto con le proprie gambe è gratis, e questa è la cosa più bella di tutte.
Anche morire nel sonno è gratis. E anche questo è bello, perché non hai il tempo di spaventarti.
Ci fu un silenzio, finché il vecchio che mi aveva chiamato spazzò l’aria con un largo gesto della mano e disse:
Andiamo! Questi discorsi ai ragazzi non interessano.
Mi chiesero allora di dov’ero e se avevo dei parenti da quelle parti e quando gli dissi di no non parvero convinti e mi chiesero come mi chiamavo di cognome, poi il cognome dei miei nonni; e presero a rimbalzarseli l’un l’altro, quei nomi, alla ricerca di una parentela che mi radicasse alla loro terra. Pensai che dovessero essere convinti che Adamo ed Eva erano nati lì da loro, nell’Abissinia.
Alla fine si rassegnarono un po’ delusi. Per consolarsi conclusero che assomigliavo un po’ al vecchio postino di Riccione.
Sai, disse uno, si chiamava Battarra Viliam; proprio così: Viliam, perché l’ufficiale dell’Anagrafe si era sbagliato a trascrivere il nome che il padre avrebbe voluto dare al suo unico maschio, William, e gliel’aveva scritto così. Quando se n’era accorto era troppo tardi e allora era rimasto Viliam.
Il vecchio rideva:
E lui per tutta la vita quando si presentava dice: Battarra Viliam, Vi-semplice-una-elle, che sembrava un titolo onorifico.
Parli tu che ti chiami Pilmer, che non si sa bene dove l’abbia pescato tuo padre un nome così.
In Romagna ci sono i nomi più fantasiosi d’Italia. Tutti ridevano con le bocche sdentate, calcolai che avevo più denti io di tutti loro messi assieme. Ridevano con dei pigolanti suoni di gola che anche stavolta mi ricordarono uccelli spennacchiati e freddolosi; poi in tutti il riso scoppiò in lunghe e rantolanti tossi.
Mentre si riprendevano asciugandosi le lacrime approfittai per domandare che lavoro facevano o avessero fatto. Rispose uno per tutti:
Siamo stati tutti marinai, e questa è una colonia destinata a noi che ci possiamo venire qui a passare un mese di vacanza spendendo due lire.
Ma poi intervennero tutti gli altri, a chiarirmi la loro vita, ognuno con una frase o un commento:
Una volta eravamo in tanti qui alla Colonia, ora siamo rimasti solo noi.
Occupiamo le cabine dell’ultimo ponte, dove tira più vento, così ci pare di stare ancóra in mezzo al mare.
Stiamo qui il mese di agosto.
Quand’è che andiamo via?
Domani andiamo via, Cisarein. Prepara la valigia, stasera.
Aspettano che moriamo per chiudere la Colonia, disse Cisarein.
Ma noi li facciamo penare!, aggiunse un altro con un sorriso malizioso.
Chissà chi sarà l’ultimo di noi, quello che spegnerà la luce e chiuderà la porta…
L’anno scorso c’era anche Sulìv, vi ricordate?
Era il più vecchio.
È morto a gennaio. Aveva un anno più della morte.
E chi vi fa da mangiare?, domandai.
Ci facciamo da mangiare da soli.
Sì, in mare si impara a fare di tutto, cosa credi. Non c’è mica la mamma a farti la minestra.
Adesso siamo vecchi, siamo in pensione.
A terra, in pensione, il marinaio è tutto diverso da com’era prima. Perchè prima lui pensa che farà, che andrà, che dirà. E dopo invece finisce a gironzolare tutto il giorno sul molo ad aspettare le barche che tornano dalla pesca.
Eh, non è facile andare in pensione, affermò un vecchio filosofo.
Ci fu un attimo di silenzio.
Che bel sole!, fece uno. Peccato andar via domani.
Eh, ma inizia a far freschino. Domani comincia settembre.
Te hai sempre freddo.
Avevano ripreso a chiacchierare sottovoce tra di loro. Presto, come avevo sperato, si dimenticarono della mia presenza. Io li spiavo, immobile per non farmi notare. Ad alcuni tremavano le mani, grandi e dalle dita nodose, e quel movimento continuo faceva nascere l’illusione che stessero sferruzzando o rammendando reti da pésca, il fantasma di un lavoro che accompagnava i loro discorsi pieni di fantasmi. Perché, come fanno i vecchi, non parlavano mai del domani, il domani era da esorcizzare, con i suoi pensieri di morte. Parlavano di cose ed avvenimenti passati da anni. Ci giravano intorno come farfalline al lume, interrompendosi a vicenda, domandando, spiegando.
Capii che si raccontavano storie, sempre quelle, ricordi della loro giovinezza. E capii anche che nel gruppo c’era un narratore, proprio quello che fumava i sigari tritati nella pipa. Tutte le chiacchiere, le domande, le osservazioni apparentemente svagate avevano il solo scopo di innescarlo, di offrirgli un ventaglio di possibilità perché potesse iniziare una storia, una che sapevano già tutti e a cui tutti contribuivano con dettagli e particolari.
Ti ricordi di Maurino?, disse uno.
In quella comunità i morti occupavano un posto importante; anzi era come se non fossero mai morti ma fossero là assieme agli altri, in mezzo a loro, perché quei vecchi seguitavano a ricordare e raccontare le loro esistenze.
Come no, quel ‘patàca’…, rispose il vecchio freddoloso.
‘Patàca’ sì, ma intanto lui la guerra l’ha fatta da imboscato.
Perché?, chiese Cisarein.
Non ti ricordi? Tutti i rischi che correva erano quelli per strada dalla casa del generale al Ministero!
Ecco, il narratore era innescato e attaccò:
Sapeva guidare e così era entrato negli Autieri e faceva l’autista di un generale della Marina a Roma. Una volta ci siamo trovati a casa tutti e due in licenza. Io venivo dal fronte, lui da Roma. E io gli ho detto: ‘Maurino, te che frequenti i generali, prova a chiedergli quando finisce ‘sta guerra boia.’
Che generali frequentava Maurino?, interruppe uno.
Ma quello a cui faceva da autista, no? E quindi gli dico di informarsi, e lui mi fa: ‘Va bene. Aspetto il momento opportuno e glielo chiedo.’ Passano tre mesi e torno dall’Albania. Prima di mandarmi in Corsica mi fanno fare due giorni di licenza a casa e trovo Maurino, anche lui in licenza.
Ma era sempre a casa quello?, chiede Pilmer.
Eh, mica per niente era autista di un generale. Allora ci vediamo in piazza e gli dico: ‘Ce l’hai chiesto al generale quando finisce la guerra?’
Che guerra?, interrompe Cisarein. Quella del 15 o l’ultima?
L’ultima, l’ultima. Era del 16, lui, mica aveva potuto farla la prima.
Il narratore non si spazientiva mai. Le ripetizioni erano continue, ma i vecchi sembravano fregarsene delle perdite di tempo e non si annoiavano, come se ad ogni ripetizione acquistassero un minuscolo ulteriore frammento di verità fino ad allora nascosto, che arricchiva la storia dell’amico defunto.
Dunque gli domando se aveva chiesto al generale quando finiva la guerra. E lui: ‘Ma ci vuole l’occasione!’ ‘Ma non ti parla mai?’ ‘Oh! È raro. La settimana scorsa per esempio mi ha chiesto un fiammifero…’ E io: ‘Ecco! quella era l’occasione’ ‘Ma dai! A uno che ti chiede un fiammifero gli vai a domandare quando finisce la guerra!’ Insomma non gliel’aveva chiesto.
Te l’ho detto che era un ‘patàca’!, commenta il vecchio freddoloso.
E il narratore riprende:
L’ultimo giorno che ero a casa in licenza vado dai carabinieri per il foglio di viaggio, scivolo per le scale e mi rompo una gamba.
Che fortuna!
La fortuna fu che me l’ero rotta sotto i loro occhi, altrimenti i caramba erano capaci di sospettare che l’avevo fatto apposta per non partire. E invece mi misi a letto col gesso. Dopo quindici giorni mi viene a trovare Maurino.
Ancóra in licenza!, fece Pilmer.
Eh, te l’ho detto. E allora gli chiedo: ‘Hai chiesto al generale?’ E lui: ‘Sta bon! Due giorni fa stavamo andando a Ministero della Marina quando mi fa: ‘E te come ti chiami?’
Ma non sapeva come si chiamava il suo autista?!, allibisce un vecchio.
I generali son fatti così, sembra che tu non li conosca!
E chi ha mai visto un generale…
Beh, insomma: gli chiede come si chiama. ‘Maurino’, fa lui. E il generale: ‘Senti, Maurino: secondo te quando finisce la guerra?’
Di nuovo udii il pigolio delle loro risate seguito dai colpi di tosse e dalle lacrime. Molti la storia probabilmente la sapevano già, molti se l’erano dimenticata; comunque fosse il narratore aveva avuto il solito successo, e attaccò con un’altra.
Maurino è stato sempre bene in vita sua, mai un malanno. Ma quando ebbe sessant’anni, neanche tanto vecchio, il mal di schiena non gli dava tregua.
Anche a me l’artrite…
Lo sappiamo, Cisarein. Ma lui stava male davvero. Il dottor Battarra…
Parente di Viliam Vi-semplice-una-elle?, domandò il vecchio-filosofo.
Non so. Il dottore l’aveva visitato e gli aveva dato dei sulfamedici da prendere.
Cosa sono i sulfamedici?, chiese ancóra Cisarein
Delle medicine, no?
Ah! Credevo fossero degli altri dottori.
Pigliava le medicine, ma servivano a poco. E siccome il dottor Battarra andava due volte alla settimana, il martedì e il venerdì, a Cattolica con la corriera, Maurino aveva preso l’abitudine di aspettarlo sotto la pensilina della fermata di Miramare, che era a trenta passi da casa sua. Si metteva lì con la moglie, la Dolores, seduti su due sedie impagliate, quelle da cucina. E aspettavano, e intanto che aspettavano la Dolores puliva i fagiolini o faceva la calza. Poi arrivava la corriera e lui dava una voce al dottor Battarra.
Per salutare?, chiese Cisarein.
Anche. Si sporgeva un po’ sulla sedia e urlava:‘Buongiorno dottoreee!’. E Battarra, attraverso il finestrino:‘Saluteee!’ E Maurino: ‘Sapete che ho sempre mal di schienaaaa?’
Eh sì, perché ai dottori si dava del voi, chiosò il vecchio-filosofo.
Già. E Battarra, seduto nella terza fila della corriera: ‘Stai seduto, Maurinooo. Prendi il salicilatooo, non troppo se no ti fa brucioreee’. La corriera partiva e lui si faceva dare il salicilato dalla Dolores. E così Maurino si evitava di andare all’ambulatorio che non era lontano da casa sua, ma col mal di schiena anche un chilometro è tanto. La volta dopo la stessa scena: ‘Dottore mi brucia lo stomacooo’. E Battarra: ‘Tira fuori la linguaaa’. Maurino tirava fuori una lingua grigia e bianca. Il dottore gliela guardava attraverso il vetro, e poi:‘Prendi un cucchiaio di magnesiaaa’, faceva. E così due volte la settimana visitava Maurino stando seduto in corriera.
E se pioveva?, chiese Pilmer.
Fa niente. Loro due, Maurino e la Dolores, aspettavano la corriera impassibili, come niente fosse. Una mattina alla fermata di Miramare c’era solo la Dolores. Il dottor Battarra fa: ‘Dov’è Maurinooo?’ E lei: ‘A letto. Ha la testa che scottaaa e i piedi gelatiii.’
‘Impacchi caldi ai piedi e freddi in fronteee.’
Di farina di lino, quelli caldi?, si informò il vecchio freddoloso.
Impacchi, non so. Il martedì successivo c’era sempre solo la Dolores sotto la pensilina. ‘Come vaaa?’, fa il dottore. ‘Ah, signor dottoreee! Maurino mi è morto ieri sera alle undiciii’. E Battarra: ‘Condoglianzeee! Fatevene una ragioneee: anche la scienza ha i suoi limitii!’
Ai vecchi gli occhi gli si illuminano e sorridono tristemente e con dolcezza ricordando l’amico scomparso: il sorriso era l’unico bagaglio che si fossero portati dietro dall’infanzia.

Il sole stava tramontando dietro la montagna di S. Marino, e sembrava che la sera si arrotolasse sul giorno, partendo dal mare. Era ora di tornare. Mi alzai dalla panchina e me ne andai in punta di piedi; loro non se ne accorsero impegnati com’erano a raccontarsi una antica vicenda di mare. Córsi a casa, mi misi a tavola per la cena senza dir niente ai nonni.
Il giorno dopo tutti gli oblò erano chiusi, nessun asciugamano era più steso ad asciugare: i vecchi marinai erano partiti, e non li ho rivisti più.

Era la fine di agosto; il tempo era incerto, piovigginava. Non era il caso di andare alla spiaggia; avevo approfittato per portarmi avanti coi cómpiti delle vacanze. A metà pomeriggio però il sole era uscito sfolgorante asciugando in un attimo ogni cosa. Uscii fuori, avevo bisogno di muovermi, di fare due passi. L’aria si era rinfrescata ma il sole era ancóra caldo.
Mi avviai per il terreno proibito verso la Colonia, senza realmente pensare di andarla ad esplorare.
Camminavo a testa bassa badando a dove mettevo i piedi, sicché all’improvviso me la trovai davanti, enorme e minacciosa. Decisi d’impulso di vincere quella leggera ripulsa che mi prendeva ogni volta che la vedevo e mi avvicinai lungo la stradina sabbiosa.
Man mano che mi avvicinavo mi appariva sempre più cadente, molto più di quanto non apparisse di lontano. I primi due ponti, quelli più bassi, erano disabitati, ma l’ultimo aveva tre o quattro oblò aperti, come per dar aria alla stanza. Una tendina bianca svolazzava entrando ed uscendo da uno di essi. Ma chi abitava la Colonia?
La porta d’ingresso era sbarrata, ma non sarei entrato comunque. Avevo intenzione di fare un giro di esplorazione attorno alla nave, tanto per vedere. Arrivai sul retro, che aveva lo stesso aspetto del davanti: le terrazze contornavano simmetricamente tutta la Colonia. Le prime due erano sempre deserte, ma sulla terza, appoggiato al parapetto vidi un vecchio con una pipa in bocca che guardava lontano verso le colline. Quando mi scorse mi fece un cenno con la mano invitandomi a salire. Esitai un attimo (Non dar retta agli sconosciuti che ti chiamano o ti danno caramelle!), ma poi mi decisi. Al centro della fiancata posteriore c’era una scaletta che portava al primo ponte, e poi altre portavano su. E così in un attimo fui sul terzo ponte.
Lassù tirava un’arietta fresca che veniva dalle colline. Con la schiena al muro e la faccia al sole c’era una decina di vecchietti seduti su una panca lungo la parete delle cabine. Sembravano un gruppo di piccioni, quando d’inverno si stringono sulle grondaie per scaldarsi. Erano tutti abbronzati e rugosi, non come me che prendevo il sole un mese all’anno al mare, ma con l’abbronzatura che hanno quelli che passano la vita all’aria aperta. Pensai che fossero contadini.
Mi guardarono sbucare dalla scaletta con uno stupore pari al mio, come se non fossero abituati a ricevere visite. Ricambiarono in coro il mio saluto. Quello che mi aveva chiamato mi si avvicinò: puzzava del sigaro toscano che fumava sbriciolato nella pipa. Mi invitò a sedermi su una panchetta di fronte alla fila di vecchi che mi guardavano con curiosità.
Son veduto a vedere il tramonto, dissi tanto per rompere il ghiaccio.
Uno dei vecchi rispose allegro:
Puoi stare qui finché vuoi.
Un altro intervenne:
Il tramonto…Mio padre defunto diceva sempre: il tramonto è il più bello spettacolo del mondo, ed è gratis.
Mi parve buffo che quel vecchio decrepito avesse voluto precisare che suo padre era defunto.
Tutte le robe più belle sono gratis, disse un altro, e diede l’avvio ad una specie di coro:
Nuotare in mare è gratis…
Anche correre…
E cantare…
Svegliarsi al mattino senza i dolori reumatici e poter scendere dal letto con le proprie gambe è gratis, e questa è la cosa più bella di tutte.
Anche morire nel sonno è gratis. E anche questo è bello, perché non hai il tempo di spaventarti.
Ci fu un silenzio, finché il vecchio che mi aveva chiamato spazzò l’aria con un largo gesto della mano e disse:
Andiamo! Questi discorsi ai ragazzi non interessano.
Mi chiesero allora di dov’ero e se avevo dei parenti da quelle parti e quando gli dissi di no non parvero convinti e mi chiesero come mi chiamavo di cognome, poi il cognome dei miei nonni; e presero a rimbalzarseli l’un l’altro, quei nomi, alla ricerca di una parentela che mi radicasse alla loro terra. Pensai che dovessero essere convinti che Adamo ed Eva erano nati lì da loro, nell’Abissinia.
Alla fine si rassegnarono un po’ delusi. Per consolarsi conclusero che assomigliavo un po’ al vecchio postino di Riccione.
Sai, disse uno, si chiamava Battarra Viliam; proprio così: Viliam, perché l’ufficiale dell’Anagrafe si era sbagliato a trascrivere il nome che il padre avrebbe voluto dare al suo unico maschio, William, e gliel’aveva scritto così. Quando se n’era accorto era troppo tardi e allora era rimasto Viliam.
Il vecchio rideva:
E lui per tutta la vita quando si presentava dice: Battarra Viliam, Vi-semplice-una-elle, che sembrava un titolo onorifico.
Parli tu che ti chiami Pilmer, che non si sa bene dove l’abbia pescato tuo padre un nome così.
In Romagna ci sono i nomi più fantasiosi d’Italia. Tutti ridevano con le bocche sdentate, calcolai che avevo più denti io di tutti loro messi assieme. Ridevano con dei pigolanti suoni di gola che anche stavolta mi ricordarono uccelli spennacchiati e freddolosi; poi in tutti il riso scoppiò in lunghe e rantolanti tossi.
Mentre si riprendevano asciugandosi le lacrime approfittai per domandare che lavoro facevano o avessero fatto. Rispose uno per tutti:
Siamo stati tutti marinai, e questa è una colonia destinata a noi che ci possiamo venire qui a passare un mese di vacanza spendendo due lire.
Ma poi intervennero tutti gli altri, a chiarirmi la loro vita, ognuno con una frase o un commento:
Una volta eravamo in tanti qui alla Colonia, ora siamo rimasti solo noi.
Occupiamo le cabine dell’ultimo ponte, dove tira più vento, così ci pare di stare ancóra in mezzo al mare.
Stiamo qui il mese di agosto.
Quand’è che andiamo via?
Domani andiamo via, Cisarein. Prepara la valigia, stasera.
Aspettano che moriamo per chiudere la Colonia, disse Cisarein.
Ma noi li facciamo penare!, aggiunse un altro con un sorriso malizioso.
Chissà chi sarà l’ultimo di noi, quello che spegnerà la luce e chiuderà la porta…
L’anno scorso c’era anche Sulìv, vi ricordate?
Era il più vecchio.
È morto a gennaio. Aveva un anno più della morte.
E chi vi fa da mangiare?, domandai.
Ci facciamo da mangiare da soli.
Sì, in mare si impara a fare di tutto, cosa credi. Non c’è mica la mamma a farti la minestra.
Adesso siamo vecchi, siamo in pensione.
A terra, in pensione, il marinaio è tutto diverso da com’era prima. Perchè prima lui pensa che farà, che andrà, che dirà. E dopo invece finisce a gironzolare tutto il giorno sul molo ad aspettare le barche che tornano dalla pesca.
Eh, non è facile andare in pensione, affermò un vecchio filosofo.
Ci fu un attimo di silenzio.
Che bel sole!, fece uno. Peccato andar via domani.
Eh, ma inizia a far freschino. Domani comincia settembre.
Te hai sempre freddo.
Avevano ripreso a chiacchierare sottovoce tra di loro. Presto, come avevo sperato, si dimenticarono della mia presenza. Io li spiavo, immobile per non farmi notare. Ad alcuni tremavano le mani, grandi e dalle dita nodose, e quel movimento continuo faceva nascere l’illusione che stessero sferruzzando o rammendando reti da pésca, il fantasma di un lavoro che accompagnava i loro discorsi pieni di fantasmi. Perché, come fanno i vecchi, non parlavano mai del domani, il domani era da esorcizzare, con i suoi pensieri di morte. Parlavano di cose ed avvenimenti passati da anni. Ci giravano intorno come farfalline al lume, interrompendosi a vicenda, domandando, spiegando.
Capii che si raccontavano storie, sempre quelle, ricordi della loro giovinezza. E capii anche che nel gruppo c’era un narratore, proprio quello che fumava i sigari tritati nella pipa. Tutte le chiacchiere, le domande, le osservazioni apparentemente svagate avevano il solo scopo di innescarlo, di offrirgli un ventaglio di possibilità perché potesse iniziare una storia, una che sapevano già tutti e a cui tutti contribuivano con dettagli e particolari.
Ti ricordi di Maurino?, disse uno.
In quella comunità i morti occupavano un posto importante; anzi era come se non fossero mai morti ma fossero là assieme agli altri, in mezzo a loro, perché quei vecchi seguitavano a ricordare e raccontare le loro esistenze.
Come no, quel ‘patàca’…, rispose il vecchio freddoloso.
‘Patàca’ sì, ma intanto lui la guerra l’ha fatta da imboscato.
Perché?, chiese Cisarein.
Non ti ricordi? Tutti i rischi che correva erano quelli per strada dalla casa del generale al Ministero!
Ecco, il narratore era innescato e attaccò:
Sapeva guidare e così era entrato negli Autieri e faceva l’autista di un generale della Marina a Roma. Una volta ci siamo trovati a casa tutti e due in licenza. Io venivo dal fronte, lui da Roma. E io gli ho detto: ‘Maurino, te che frequenti i generali, prova a chiedergli quando finisce ‘sta guerra boia.’
Che generali frequentava Maurino?, interruppe uno.
Ma quello a cui faceva da autista, no? E quindi gli dico di informarsi, e lui mi fa: ‘Va bene. Aspetto il momento opportuno e glielo chiedo.’ Passano tre mesi e torno dall’Albania. Prima di mandarmi in Corsica mi fanno fare due giorni di licenza a casa e trovo Maurino, anche lui in licenza.
Ma era sempre a casa quello?, chiede Pilmer.
Eh, mica per niente era autista di un generale. Allora ci vediamo in piazza e gli dico: ‘Ce l’hai chiesto al generale quando finisce la guerra?’
Che guerra?, interrompe Cisarein. Quella del 15 o l’ultima?
L’ultima, l’ultima. Era del 16, lui, mica aveva potuto farla la prima.
Il narratore non si spazientiva mai. Le ripetizioni erano continue, ma i vecchi sembravano fregarsene delle perdite di tempo e non si annoiavano, come se ad ogni ripetizione acquistassero un minuscolo ulteriore frammento di verità fino ad allora nascosto, che arricchiva la storia dell’amico defunto.
Dunque gli domando se aveva chiesto al generale quando finiva la guerra. E lui: ‘Ma ci vuole l’occasione!’ ‘Ma non ti parla mai?’ ‘Oh! È raro. La settimana scorsa per esempio mi ha chiesto un fiammifero…’ E io: ‘Ecco! quella era l’occasione’ ‘Ma dai! A uno che ti chiede un fiammifero gli vai a domandare quando finisce la guerra!’ Insomma non gliel’aveva chiesto.
Te l’ho detto che era un ‘patàca’!, commenta il vecchio freddoloso.
E il narratore riprende:
L’ultimo giorno che ero a casa in licenza vado dai carabinieri per il foglio di viaggio, scivolo per le scale e mi rompo una gamba.
Che fortuna!
La fortuna fu che me l’ero rotta sotto i loro occhi, altrimenti i caramba erano capaci di sospettare che l’avevo fatto apposta per non partire. E invece mi misi a letto col gesso. Dopo quindici giorni mi viene a trovare Maurino.
Ancóra in licenza!, fece Pilmer.
Eh, te l’ho detto. E allora gli chiedo: ‘Hai chiesto al generale?’ E lui: ‘Sta bon! Due giorni fa stavamo andando a Ministero della Marina quando mi fa: ‘E te come ti chiami?’
Ma non sapeva come si chiamava il suo autista?!, allibisce un vecchio.
I generali son fatti così, sembra che tu non li conosca!
E chi ha mai visto un generale…
Beh, insomma: gli chiede come si chiama. ‘Maurino’, fa lui. E il generale: ‘Senti, Maurino: secondo te quando finisce la guerra?’
Di nuovo udii il pigolio delle loro risate seguito dai colpi di tosse e dalle lacrime. Molti la storia probabilmente la sapevano già, molti se l’erano dimenticata; comunque fosse il narratore aveva avuto il solito successo, e attaccò con un’altra.
Maurino è stato sempre bene in vita sua, mai un malanno. Ma quando ebbe sessant’anni, neanche tanto vecchio, il mal di schiena non gli dava tregua.
Anche a me l’artrite…
Lo sappiamo, Cisarein. Ma lui stava male davvero. Il dottor Battarra…
Parente di Viliam Vi-semplice-una-elle?, domandò il vecchio-filosofo.
Non so. Il dottore l’aveva visitato e gli aveva dato dei sulfamedici da prendere.
Cosa sono i sulfamedici?, chiese ancóra Cisarein
Delle medicine, no?
Ah! Credevo fossero degli altri dottori.
Pigliava le medicine, ma servivano a poco. E siccome il dottor Battarra andava due volte alla settimana, il martedì e il venerdì, a Cattolica con la corriera, Maurino aveva preso l’abitudine di aspettarlo sotto la pensilina della fermata di Miramare, che era a trenta passi da casa sua. Si metteva lì con la moglie, la Dolores, seduti su due sedie impagliate, quelle da cucina. E aspettavano, e intanto che aspettavano la Dolores puliva i fagiolini o faceva la calza. Poi arrivava la corriera e lui dava una voce al dottor Battarra.
Per salutare?, chiese Cisarein.
Anche. Si sporgeva un po’ sulla sedia e urlava:‘Buongiorno dottoreee!’. E Battarra, attraverso il finestrino:‘Saluteee!’ E Maurino: ‘Sapete che ho sempre mal di schienaaaa?’
Eh sì, perché ai dottori si dava del voi, chiosò il vecchio-filosofo.
Già. E Battarra, seduto nella terza fila della corriera: ‘Stai seduto, Maurinooo. Prendi il salicilatooo, non troppo se no ti fa brucioreee’. La corriera partiva e lui si faceva dare il salicilato dalla Dolores. E così Maurino si evitava di andare all’ambulatorio che non era lontano da casa sua, ma col mal di schiena anche un chilometro è tanto. La volta dopo la stessa scena: ‘Dottore mi brucia lo stomacooo’. E Battarra: ‘Tira fuori la linguaaa’. Maurino tirava fuori una lingua grigia e bianca. Il dottore gliela guardava attraverso il vetro, e poi:‘Prendi un cucchiaio di magnesiaaa’, faceva. E così due volte la settimana visitava Maurino stando seduto in corriera.
E se pioveva?, chiese Pilmer.
Fa niente. Loro due, Maurino e la Dolores, aspettavano la corriera impassibili, come niente fosse. Una mattina alla fermata di Miramare c’era solo la Dolores. Il dottor Battarra fa: ‘Dov’è Maurinooo?’ E lei: ‘A letto. Ha la testa che scottaaa e i piedi gelatiii.’
‘Impacchi caldi ai piedi e freddi in fronteee.’
Di farina di lino, quelli caldi?, si informò il vecchio freddoloso.
Impacchi, non so. Il martedì successivo c’era sempre solo la Dolores sotto la pensilina. ‘Come vaaa?’, fa il dottore. ‘Ah, signor dottoreee! Maurino mi è morto ieri sera alle undiciii’. E Battarra: ‘Condoglianzeee! Fatevene una ragioneee: anche la scienza ha i suoi limitii!’
Ai vecchi gli occhi gli si illuminano e sorridono tristemente e con dolcezza ricordando l’amico scomparso: il sorriso era l’unico bagaglio che si fossero portati dietro dall’infanzia.

Il sole stava tramontando dietro la montagna di S. Marino, e sembrava che la sera si arrotolasse sul giorno, partendo dal mare. Era ora di tornare. Mi alzai dalla panchina e me ne andai in punta di piedi; loro non se ne accorsero impegnati com’erano a raccontarsi una antica vicenda di mare. Córsi a casa, mi misi a tavola per la cena senza dir niente ai nonni.
Il giorno dopo tutti gli oblò erano chiusi, nessun asciugamano era più steso ad asciugare: i vecchi marinai erano partiti, e non li ho rivisti più.

 

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