Guardo le finestre di questa stanza, sporche, rigate. Le tende coprono una vista che dovrebbe essere di palazzoni e periferia. Che tristezza morire qua, mi viene da pensare, disteso su un letto anonimo, che presto svuoteranno e riempiranno di nuovo. In questa stanza non ci sarà neanche il ricordo di questo vecchio che sono inspiegabilmente diventato. Guardo i miei figli che gironzolano intorno. Sono ammirevoli. Stanno accanto a me giorno e notte. E io, per ringraziamento, l'unica cosa che penso è lei. Mia moglie è morta da cinque anni. Si è spenta d'improvviso. Una sera, seduta in poltrona a leggere, ha fatto un respiro profondo, quasi un sospiro, e poi è morta. Siamo stati insieme per 40 anni e abbiamo tre splendidi figli. E non è a lei che penso. L'ultima volta che l'ho vista, la donna che mi gira in testa, è stata una decina di anni fa. Chiamiamola Giada. Era una camera bianca simile a questa. Gli ospedali si assomigliano tutti. Il pensiero che questa mia stanza sia simile alla sua di allora me la fa un po' meno tetra. Giada in sei mesi perse venti, trenta chili. Senza capelli, le guance svuotate, le braccia sottili e pallide. Mi sedetti a fianco del suo letto e le tenni la mano per due ore di fila, con la sua famiglia che le girava intorno, suo marito che mi guardava storto e i figli che sorridevano imbarazzati. Non importava. Le stringevo la mano che altre volte avevo visto dipingere, suonare, scrivere quel veloce corsivo, e che ora se ne stava abbandonata sulle lenzuola. Andai solo una volta a trovarla. Mi ammalavo continuamente. Prima una semplice influenza, un po' di febbre. Poi polmonite. Lo stomaco decise che era tempo di un'ulcera. Non uscii di casa per dei mesi, ma non c'era giorno che non ripensassi a quella mano. Mi immaginavo la routine di quella stanza, che oggi la mia routine mi conferma. E piangevo, come un ragazzino. Piangevo di nascosto, guardando un telegiornale, leggendo un libro. Bastava niente. Mia moglie faceva finta di non accorgersi, santa donna. E quando mi fui rimesso, lei era morta.
Giada era bellissima. Le bastava passeggiare per strada, anche cinquantenne, e si sentiva per aria un'elettricità di sguardi maschili. Non lo sapeva e, per quanto uno potesse raccontarglielo, non ci credeva. Aveva degli occhi chiari e una faccia leggera, perfetta. Camminava a piccoli passi, sorridendo, e qualsiasi cosa avesse indosso diventava elegante. Lavorava in uno studio medico come segretaria. Suo figlio, ormai ventenne, studiava a Milano e a lei mancava tremendamente qualcosa. Le si leggeva negli occhi un'insoddisfazione tenuta a bada dalle buone maniere e dal saper vivere. A volte ci incontravamo per pranzo. Io fingevo impegni vicino al suo studio che terminavano, puntuali, con la sua pausa. La chiamavo, come se fosse niente, e buttavo là un “Ci vediamo per pranzo? Sono in zona”. Mangiavamo in posti diversi, sceglieva sempre lei. E per quanto adesso mi sforzi, non ricordo una sola frase di quelle che ci siamo detti. Solo una sensazione di vago stupore, di beata irrequietezza che mi accompagnava fino alla sera e faceva tutto più profondo. Come se dopo aver parlato con lei vedessi più chiaramente, più a fuoco. Ci capivamo, ecco, un'intesa. Mai che dovessimo ripetere qualcosa due volte. Non c'era sguardo, movimento delle mani o accento che andasse perduto. Era come ballare bene. Parlavamo di cose solite: le nostre famiglie, il lavoro, il futuro, ma eravamo sinceri, senza pietà. Quando le chiedevo “Come stai?”, la risposta più breve era di almeno dieci minuti e a volte qualche lacrima. Giada aveva occhi che vedevano sotto la superficie delle cose. E mi sorprendeva continuamente. Era settembre e ancora sembrava estate in centro. Io stavo per lasciare mia moglie. Non dormivamo più insieme e la sera ci sembravamo cani in gabbia. E Giada mi disse che si era fatta un'amante. Mi ricordo le parole esatte, quasi infantili: “Mi vedo con qualcuno”. La guardai e il tavolino che ci divideva si allungò di un paio di metri. Masticai lento, pregando che quel boccone non finisse mai. “Sono contento. Magari è un nuovo inizio”. Ma non era vero. Tornando a casa comprai delle rose per mia moglie. Fu quella l'ultima volta che avrei potuto sterzare. Da lì in poi, tutto porta a questo letto, come rotolano delle biglie di vetro su una lunga scalinata.
E' strano come la nostra vita assomigli alle ondate di marea che si accavallano, si rincorrono e non sono altro che la copia o il contrario l'una dell'altra. Anni prima era Giada ad organizzare i nostri pranzi clandestini, come li chiamava lei ridendo. E io quasi non ci badavo. Avevo mille impegni più importanti, mi ero appena innamorato di mia moglie. Correvo continuamente da un posto all'altro. A ripensarci, di quel periodo ricordo quasi solo mia moglie e i nostri pranzi. I pranzi con Giada e il caldo dell'estate. Tutto il resto scompare, si smonta pezzo a pezzo in piccole banalità. Mi portò in un ristorante vegetariano, io che mangio bistecche tutti i giorni. Aveva il potere di aprirmi mondi nuovi, Giada. Prendemmo uno stufato di cavolo nero e un'insalata. Il cameriere ci serviva con un'aria rilassata. Indossava una camicia di lino grezzo, bianca, e sembrava non aver conti aperti con nessuno. Sorrideva e era contento che fossimo lì e gli mangiassimo lo stufato. Quando pensavo di averla capita, Giada mi scartava e scappava su, verso chissà cosa. Come ci era arrivata lì? Da quando era vegetariana? Provai a pensare. Chiacchierammo anche di mia moglie e Giada di suo marito, come si dovesse. Eravamo soli in quel ristorante anche se c'erano altri tavoli nella sala piccola. Diventava tutto importante quando eravamo noi due. Ogni parola aveva mille significati. Ogni gesto sembrava appartenere a un altro mondo, non a quello in cui bevevamo il caffè, ci lavavamo i denti la sera. Eppure finito il pranzo mi dicevo che non era niente. Che era una bella amicizia, una persona intelligente. Lo dicevo anche a mia moglie. Ho pranzato con Giada, che persona intelligente. Idiota. Quanti anni sono passati così, come se fossero cose da nulla. E importanti tutte le altre.
Una volta ero più bravo a riconoscere le cose che mi piacevano. Sono cambiato quando ho iniziato l'università. Dovevo dimostrare tante cose. Mi impegnavo, ero tremendamente serio in quello che facevo. Lavorare, studiare, tutto era una battaglia, una ricerca di senso. E riuscivo bene. Suonavo, ottimi voti, amici, una laurea presa senza un giorno di ritardo. E poi dritto a lavorare. Contro le opinioni di tutti, in settori di nicchia, nascosto. Ero la forza oscura che muoveva tanti fili, mi piaceva raccontare. Eppure Giada c'era sempre allora. A diciotto anni volevo fare lo scrittore o il musicista, ma già a venticinque non ci pensavo più. Tutto bollato come cose da niente. Ma Giada c'era. Della mia vita precedente mi rimaneva solo lei. Passavamo tanto tempo insieme. Discutevamo e ascoltavamo musica. A volte veniva nella mia stanza da studente e ci mettevamo sul letto. Non l'ho mai toccata. Ho fatto l'amore con tante donne e abbracciavo praticamente tutte le altre, non si sa mai. Lei no. Ci salutavamo e io l'abbracciavo come si abbraccia un tronco di legno. Poi lei se ne andava e io mi maledivo. E chiamavo qualcuna che non avevo paura a scopare. Era lei l'unica cosa vera rimasta e io non avevo maschere adatte. Erano finiti i tempi in cui permettevo agli altri di vedermi come una persona sensibile, con poche ragazze e troppe amiche. Parlavo sempre meno di letteratura, sentimenti. Ed era bastato questo per farmi diventare, non un playboy, ma neanche uno che passasse il sabato sera da solo. Eppure quando ero in stanza con Giada mi sentivo nudo. Mi pareva che potesse vedere i mille me insieme. Quello di prima, quello di adesso, e tutti quelli che c'erano di lato, in alto, in basso. Capaci di grandi gesti e bassezze indescrivibili. E come si fa a baciare una che ti vede così? Non si può, l'ho scoperto da solo. Era quasi estate e tutti gli studenti del dormitorio se n'erano già andati. La finestra di camera mia era aperta per il caldo e ascoltavamo un disco dei Beatles. Un disco in vinile, un disco vero. La musica scritta con lo scalpello in superficie. Aveva un graffio e ogni tanto saltava. Sembrava più umano così, quello scatolone bianco panna. Anche lui si inceppava. Fuori iniziò un temporale estivo che faceva paura. Mi abbracciò forte e rimanemmo senza parlare. La strinsi a me, un braccio sui fianchi. Le appoggiai la bocca nell'incavo del collo. Passarono i minuti e continuavo a stringere e a assaggiare la sua pelle. Ci guardammo e le vidi negli occhi una piega nuova. Ma non mi importava. C'erano solo il mio braccio, la sua schiena e la sua bocca. Provai a baciarla e lei scostò un po' la testa. Le mie labbra finirono sull'angolo della labbra. Quel piccolo incavo che si vedeva di più quando rideva. Due piccole linee tese, impercettibili, non una fossetta, qualcosa di meno. Fu solo quello. Non mi sono mai più avvicinato così tanto a quella bocca. Nei decenni che sono passati da allora, mai più. Mi convinsi di essere completamente fuoristrada. Quando uscì rimase un secondo in più sulla porta, a guardarmi. Stava per dire qualcosa, poi si voltò e basta. E io che mi chiedevo se fossi stato io a mirare troppo di lato o lei a muoversi davvero. Più rifacevo i gesti, più diventavano vaghi. Chissà se eravamo stati davvero abbracciati. E alla fine non ci pensai più, come facevo con tutte le cose. Le settimane seguenti passarono silenziose. Forse lei mi cercava di più. Qualche telefonata nelle pause delle lezioni. Una lettera che parlava di musiche nuove da ascoltare. Chissà cosa voleva dirmi. E' sempre stato così: non sapevo cosa pensasse di noi due. Oscillavo e mi convincevo a giorni alterni di amarla, che lei mi amasse, di non amarla, che lei mi considerasse un cretino. Solo quello che non conosciamo fino in fondo ci affascina davvero. Poi ci mise del suo la vita e vinsi una borsa di studio all'estero. Non tornai per due anni. Ci sentimmo dall'aeroporto - forse mi chiamò lei? - ed era triste. Io a rassicurarla che non sarei sparito, lei che mi avrebbe scritto e telefonato. Sembrava tutto sul punto di risolversi. Mi passò in testa di non partire, ma non me lo concessi. E quando tornai lei aveva conosciuto suo marito ed erano innamorati, in un mondo tutto loro. Dove io c'ero solo a volte, in qualche pranzo.
Da bambini, avevamo imparato insieme a suonare il pianoforte, lo stesso maestro. La chiesa dove ci suppliziavano con il saggio di fine anno odorava di incenso ed era buia. Il pianoforte nero a coda sembrava fuori luogo davanti all'altare, come un pachiderma scoperto a metà di una migrazione. Io portavo dei ridicoli completini con dei papillon vistosi, regali di mia madre. Lei dei vestiti neri e dritti, semplici. Era più grande di me e suonava meglio. Non ci voleva molto, a essere sinceri. Ci guardavamo aspettando il nostro turno. Lei mi disse: “Mi piace che fai l'inchino prima di suonare”. Io zitto. Lei mi prese la mano e la strinse forte. Quasi da farmi male. Mi vergognai da morire. Tutti lì intorno, e questa ragazza che mi stringeva la mano. Toccava a me, feci un inchino e sedendomi al pianoforte la guardai che mi sorrideva. Avrò avuto undici anni. Giada per me iniziò lì. Ero già preso per sempre.
Chissà cosa direbbe se le raccontassi che mi ero innamorato di lei a undici anni? Mi rimprovererebbe di averle fatto passare una vita in altalena quando sarebbe bastato dirlo. Lei mi avrebbe capito. Oppure mi guarderebbe storto, sospettosa. Come si guarda chi parla di sesso in chiesa. Oppure sorriderebbe e con una mano spettinerebbe questi capelli bianchi, facendoli arruffati, come a dire, quante sciocchezze, quanto tempo fa. Mi guardo indietro e vedo un reticolo di strade che ci hanno portato lontani. Siamo stati felici là in mezzo, in qualche modo. Ma nessuna sembrava quella giusta. Mi ha contagiato quella sera. Non basta mai il mondo a chi ha fatto un saggio con lei. Ora Giada non c'è. Mia moglie neanche. I miei figli dormono, preoccupati per me e per i loro figli che crescono, studiano, cercano chissà cosa, come il nonno, come loro. Arriverà domani anche per me, sempre uguale. Finché, un giorno, non arriverà più.
Era la fine di agosto; il tempo era incerto, piovigginava. Non era il caso di andare alla spiaggia; avevo approfittato per portarmi avanti coi cómpiti delle vacanze. A metà pomeriggio però il sole era uscito sfolgorante asciugando in un attimo ogni cosa. Uscii fuori, avevo bisogno di muovermi, di fare due passi. L’aria si era rinfrescata ma il sole era ancóra caldo.
Mi avviai per il terreno proibito verso la Colonia, senza realmente pensare di andarla ad esplorare.
Camminavo a testa bassa badando a dove mettevo i piedi, sicché all’improvviso me la trovai davanti, enorme e minacciosa. Decisi d’impulso di vincere quella leggera ripulsa che mi prendeva ogni volta che la vedevo e mi avvicinai lungo la stradina sabbiosa.
Man mano che mi avvicinavo mi appariva sempre più cadente, molto più di quanto non apparisse di lontano. I primi due ponti, quelli più bassi, erano disabitati, ma l’ultimo aveva tre o quattro oblò aperti, come per dar aria alla stanza. Una tendina bianca svolazzava entrando ed uscendo da uno di essi. Ma chi abitava la Colonia?
La porta d’ingresso era sbarrata, ma non sarei entrato comunque. Avevo intenzione di fare un giro di esplorazione attorno alla nave, tanto per vedere. Arrivai sul retro, che aveva lo stesso aspetto del davanti: le terrazze contornavano simmetricamente tutta la Colonia. Le prime due erano sempre deserte, ma sulla terza, appoggiato al parapetto vidi un vecchio con una pipa in bocca che guardava lontano verso le colline. Quando mi scorse mi fece un cenno con la mano invitandomi a salire. Esitai un attimo (Non dar retta agli sconosciuti che ti chiamano o ti danno caramelle!), ma poi mi decisi. Al centro della fiancata posteriore c’era una scaletta che portava al primo ponte, e poi altre portavano su. E così in un attimo fui sul terzo ponte.
Lassù tirava un’arietta fresca che veniva dalle colline. Con la schiena al muro e la faccia al sole c’era una decina di vecchietti seduti su una panca lungo la parete delle cabine. Sembravano un gruppo di piccioni, quando d’inverno si stringono sulle grondaie per scaldarsi. Erano tutti abbronzati e rugosi, non come me che prendevo il sole un mese all’anno al mare, ma con l’abbronzatura che hanno quelli che passano la vita all’aria aperta. Pensai che fossero contadini.
Mi guardarono sbucare dalla scaletta con uno stupore pari al mio, come se non fossero abituati a ricevere visite. Ricambiarono in coro il mio saluto. Quello che mi aveva chiamato mi si avvicinò: puzzava del sigaro toscano che fumava sbriciolato nella pipa. Mi invitò a sedermi su una panchetta di fronte alla fila di vecchi che mi guardavano con curiosità.
Son veduto a vedere il tramonto, dissi tanto per rompere il ghiaccio.
Uno dei vecchi rispose allegro:
Puoi stare qui finché vuoi.
Un altro intervenne:
Il tramonto…Mio padre defunto diceva sempre: il tramonto è il più bello spettacolo del mondo, ed è gratis.
Mi parve buffo che quel vecchio decrepito avesse voluto precisare che suo padre era defunto.
Tutte le robe più belle sono gratis, disse un altro, e diede l’avvio ad una specie di coro:
Nuotare in mare è gratis…
Anche correre…
E cantare…
Svegliarsi al mattino senza i dolori reumatici e poter scendere dal letto con le proprie gambe è gratis, e questa è la cosa più bella di tutte.
Anche morire nel sonno è gratis. E anche questo è bello, perché non hai il tempo di spaventarti.
Ci fu un silenzio, finché il vecchio che mi aveva chiamato spazzò l’aria con un largo gesto della mano e disse:
Andiamo! Questi discorsi ai ragazzi non interessano.
Mi chiesero allora di dov’ero e se avevo dei parenti da quelle parti e quando gli dissi di no non parvero convinti e mi chiesero come mi chiamavo di cognome, poi il cognome dei miei nonni; e presero a rimbalzarseli l’un l’altro, quei nomi, alla ricerca di una parentela che mi radicasse alla loro terra. Pensai che dovessero essere convinti che Adamo ed Eva erano nati lì da loro, nell’Abissinia.
Alla fine si rassegnarono un po’ delusi. Per consolarsi conclusero che assomigliavo un po’ al vecchio postino di Riccione.
Sai, disse uno, si chiamava Battarra Viliam; proprio così: Viliam, perché l’ufficiale dell’Anagrafe si era sbagliato a trascrivere il nome che il padre avrebbe voluto dare al suo unico maschio, William, e gliel’aveva scritto così. Quando se n’era accorto era troppo tardi e allora era rimasto Viliam.
Il vecchio rideva:
E lui per tutta la vita quando si presentava dice: Battarra Viliam, Vi-semplice-una-elle, che sembrava un titolo onorifico.
Parli tu che ti chiami Pilmer, che non si sa bene dove l’abbia pescato tuo padre un nome così.
In Romagna ci sono i nomi più fantasiosi d’Italia. Tutti ridevano con le bocche sdentate, calcolai che avevo più denti io di tutti loro messi assieme. Ridevano con dei pigolanti suoni di gola che anche stavolta mi ricordarono uccelli spennacchiati e freddolosi; poi in tutti il riso scoppiò in lunghe e rantolanti tossi.
Mentre si riprendevano asciugandosi le lacrime approfittai per domandare che lavoro facevano o avessero fatto. Rispose uno per tutti:
Siamo stati tutti marinai, e questa è una colonia destinata a noi che ci possiamo venire qui a passare un mese di vacanza spendendo due lire.
Ma poi intervennero tutti gli altri, a chiarirmi la loro vita, ognuno con una frase o un commento:
Una volta eravamo in tanti qui alla Colonia, ora siamo rimasti solo noi.
Occupiamo le cabine dell’ultimo ponte, dove tira più vento, così ci pare di stare ancóra in mezzo al mare.
Stiamo qui il mese di agosto.
Quand’è che andiamo via?
Domani andiamo via, Cisarein. Prepara la valigia, stasera.
Aspettano che moriamo per chiudere la Colonia, disse Cisarein.
Ma noi li facciamo penare!, aggiunse un altro con un sorriso malizioso.
Chissà chi sarà l’ultimo di noi, quello che spegnerà la luce e chiuderà la porta…
L’anno scorso c’era anche Sulìv, vi ricordate?
Era il più vecchio.
È morto a gennaio. Aveva un anno più della morte.
E chi vi fa da mangiare?, domandai.
Ci facciamo da mangiare da soli.
Sì, in mare si impara a fare di tutto, cosa credi. Non c’è mica la mamma a farti la minestra.
Adesso siamo vecchi, siamo in pensione.
A terra, in pensione, il marinaio è tutto diverso da com’era prima. Perchè prima lui pensa che farà, che andrà, che dirà. E dopo invece finisce a gironzolare tutto il giorno sul molo ad aspettare le barche che tornano dalla pesca.
Eh, non è facile andare in pensione, affermò un vecchio filosofo.
Ci fu un attimo di silenzio.
Che bel sole!, fece uno. Peccato andar via domani.
Eh, ma inizia a far freschino. Domani comincia settembre.
Te hai sempre freddo.
Avevano ripreso a chiacchierare sottovoce tra di loro. Presto, come avevo sperato, si dimenticarono della mia presenza. Io li spiavo, immobile per non farmi notare. Ad alcuni tremavano le mani, grandi e dalle dita nodose, e quel movimento continuo faceva nascere l’illusione che stessero sferruzzando o rammendando reti da pésca, il fantasma di un lavoro che accompagnava i loro discorsi pieni di fantasmi. Perché, come fanno i vecchi, non parlavano mai del domani, il domani era da esorcizzare, con i suoi pensieri di morte. Parlavano di cose ed avvenimenti passati da anni. Ci giravano intorno come farfalline al lume, interrompendosi a vicenda, domandando, spiegando.
Capii che si raccontavano storie, sempre quelle, ricordi della loro giovinezza. E capii anche che nel gruppo c’era un narratore, proprio quello che fumava i sigari tritati nella pipa. Tutte le chiacchiere, le domande, le osservazioni apparentemente svagate avevano il solo scopo di innescarlo, di offrirgli un ventaglio di possibilità perché potesse iniziare una storia, una che sapevano già tutti e a cui tutti contribuivano con dettagli e particolari.
Ti ricordi di Maurino?, disse uno.
In quella comunità i morti occupavano un posto importante; anzi era come se non fossero mai morti ma fossero là assieme agli altri, in mezzo a loro, perché quei vecchi seguitavano a ricordare e raccontare le loro esistenze.
Come no, quel ‘patàca’…, rispose il vecchio freddoloso.
‘Patàca’ sì, ma intanto lui la guerra l’ha fatta da imboscato.
Perché?, chiese Cisarein.
Non ti ricordi? Tutti i rischi che correva erano quelli per strada dalla casa del generale al Ministero!
Ecco, il narratore era innescato e attaccò:
Sapeva guidare e così era entrato negli Autieri e faceva l’autista di un generale della Marina a Roma. Una volta ci siamo trovati a casa tutti e due in licenza. Io venivo dal fronte, lui da Roma. E io gli ho detto: ‘Maurino, te che frequenti i generali, prova a chiedergli quando finisce ‘sta guerra boia.’
Che generali frequentava Maurino?, interruppe uno.
Ma quello a cui faceva da autista, no? E quindi gli dico di informarsi, e lui mi fa: ‘Va bene. Aspetto il momento opportuno e glielo chiedo.’ Passano tre mesi e torno dall’Albania. Prima di mandarmi in Corsica mi fanno fare due giorni di licenza a casa e trovo Maurino, anche lui in licenza.
Ma era sempre a casa quello?, chiede Pilmer.
Eh, mica per niente era autista di un generale. Allora ci vediamo in piazza e gli dico: ‘Ce l’hai chiesto al generale quando finisce la guerra?’
Che guerra?, interrompe Cisarein. Quella del 15 o l’ultima?
L’ultima, l’ultima. Era del 16, lui, mica aveva potuto farla la prima.
Il narratore non si spazientiva mai. Le ripetizioni erano continue, ma i vecchi sembravano fregarsene delle perdite di tempo e non si annoiavano, come se ad ogni ripetizione acquistassero un minuscolo ulteriore frammento di verità fino ad allora nascosto, che arricchiva la storia dell’amico defunto.
Dunque gli domando se aveva chiesto al generale quando finiva la guerra. E lui: ‘Ma ci vuole l’occasione!’ ‘Ma non ti parla mai?’ ‘Oh! È raro. La settimana scorsa per esempio mi ha chiesto un fiammifero…’ E io: ‘Ecco! quella era l’occasione’ ‘Ma dai! A uno che ti chiede un fiammifero gli vai a domandare quando finisce la guerra!’ Insomma non gliel’aveva chiesto.
Te l’ho detto che era un ‘patàca’!, commenta il vecchio freddoloso.
E il narratore riprende:
L’ultimo giorno che ero a casa in licenza vado dai carabinieri per il foglio di viaggio, scivolo per le scale e mi rompo una gamba.
Che fortuna!
La fortuna fu che me l’ero rotta sotto i loro occhi, altrimenti i caramba erano capaci di sospettare che l’avevo fatto apposta per non partire. E invece mi misi a letto col gesso. Dopo quindici giorni mi viene a trovare Maurino.
Ancóra in licenza!, fece Pilmer.
Eh, te l’ho detto. E allora gli chiedo: ‘Hai chiesto al generale?’ E lui: ‘Sta bon! Due giorni fa stavamo andando a Ministero della Marina quando mi fa: ‘E te come ti chiami?’
Ma non sapeva come si chiamava il suo autista?!, allibisce un vecchio.
I generali son fatti così, sembra che tu non li conosca!
E chi ha mai visto un generale…
Beh, insomma: gli chiede come si chiama. ‘Maurino’, fa lui. E il generale: ‘Senti, Maurino: secondo te quando finisce la guerra?’
Di nuovo udii il pigolio delle loro risate seguito dai colpi di tosse e dalle lacrime. Molti la storia probabilmente la sapevano già, molti se l’erano dimenticata; comunque fosse il narratore aveva avuto il solito successo, e attaccò con un’altra.
Maurino è stato sempre bene in vita sua, mai un malanno. Ma quando ebbe sessant’anni, neanche tanto vecchio, il mal di schiena non gli dava tregua.
Anche a me l’artrite…
Lo sappiamo, Cisarein. Ma lui stava male davvero. Il dottor Battarra…
Parente di Viliam Vi-semplice-una-elle?, domandò il vecchio-filosofo.
Non so. Il dottore l’aveva visitato e gli aveva dato dei sulfamedici da prendere.
Cosa sono i sulfamedici?, chiese ancóra Cisarein
Delle medicine, no?
Ah! Credevo fossero degli altri dottori.
Pigliava le medicine, ma servivano a poco. E siccome il dottor Battarra andava due volte alla settimana, il martedì e il venerdì, a Cattolica con la corriera, Maurino aveva preso l’abitudine di aspettarlo sotto la pensilina della fermata di Miramare, che era a trenta passi da casa sua. Si metteva lì con la moglie, la Dolores, seduti su due sedie impagliate, quelle da cucina. E aspettavano, e intanto che aspettavano la Dolores puliva i fagiolini o faceva la calza. Poi arrivava la corriera e lui dava una voce al dottor Battarra.
Per salutare?, chiese Cisarein.
Anche. Si sporgeva un po’ sulla sedia e urlava:‘Buongiorno dottoreee!’. E Battarra, attraverso il finestrino:‘Saluteee!’ E Maurino: ‘Sapete che ho sempre mal di schienaaaa?’
Eh sì, perché ai dottori si dava del voi, chiosò il vecchio-filosofo.
Già. E Battarra, seduto nella terza fila della corriera: ‘Stai seduto, Maurinooo. Prendi il salicilatooo, non troppo se no ti fa brucioreee’. La corriera partiva e lui si faceva dare il salicilato dalla Dolores. E così Maurino si evitava di andare all’ambulatorio che non era lontano da casa sua, ma col mal di schiena anche un chilometro è tanto. La volta dopo la stessa scena: ‘Dottore mi brucia lo stomacooo’. E Battarra: ‘Tira fuori la linguaaa’. Maurino tirava fuori una lingua grigia e bianca. Il dottore gliela guardava attraverso il vetro, e poi:‘Prendi un cucchiaio di magnesiaaa’, faceva. E così due volte la settimana visitava Maurino stando seduto in corriera.
E se pioveva?, chiese Pilmer.
Fa niente. Loro due, Maurino e la Dolores, aspettavano la corriera impassibili, come niente fosse. Una mattina alla fermata di Miramare c’era solo la Dolores. Il dottor Battarra fa: ‘Dov’è Maurinooo?’ E lei: ‘A letto. Ha la testa che scottaaa e i piedi gelatiii.’
‘Impacchi caldi ai piedi e freddi in fronteee.’
Di farina di lino, quelli caldi?, si informò il vecchio freddoloso.
Impacchi, non so. Il martedì successivo c’era sempre solo la Dolores sotto la pensilina. ‘Come vaaa?’, fa il dottore. ‘Ah, signor dottoreee! Maurino mi è morto ieri sera alle undiciii’. E Battarra: ‘Condoglianzeee! Fatevene una ragioneee: anche la scienza ha i suoi limitii!’
Ai vecchi gli occhi gli si illuminano e sorridono tristemente e con dolcezza ricordando l’amico scomparso: il sorriso era l’unico bagaglio che si fossero portati dietro dall’infanzia.
Il sole stava tramontando dietro la montagna di S. Marino, e sembrava che la sera si arrotolasse sul giorno, partendo dal mare. Era ora di tornare. Mi alzai dalla panchina e me ne andai in punta di piedi; loro non se ne accorsero impegnati com’erano a raccontarsi una antica vicenda di mare. Córsi a casa, mi misi a tavola per la cena senza dir niente ai nonni.
Il giorno dopo tutti gli oblò erano chiusi, nessun asciugamano era più steso ad asciugare: i vecchi marinai erano partiti, e non li ho rivisti più. |