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Albo d'oro
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Categoria NARRATIVA - 3 ° classificata

VANES FERLINI - 2 AGOSTO

A Bologna l’afa d’agosto è uno strato di grasso. S’appiccica sulla pelle, ai capelli. La patina untuosa ricopre anche i pensieri, cattura i suoni, addormenta le coscienze.
Osvaldo ha trascorso la notte alla Montagnola, con lo spicchio di luna tra le fronde dei platani secolari e il mantello scuro dell’afa avvolto addosso. Le panchine di legno sono sgangherate, ma una decente si trova.
Niente di meglio di un parco pubblico, la notte, per comprendere come va il mondo.
Coppiette minorenni, ragazzi in T-shirt che si scambiano bustine di plastica, altri che confabulano per ore di chissà quali misteri… o forse di nulla.
L’estate scorre sulla corteccia dei platani, le altre stagioni sono segnate dallo scorrere dei viaggiatori. Osvaldo li osserva transitare, frettolosi o disorientati, nella sala d’aspetto della stazione, dove si è ricavato un angolino tutto suo, delimitato dal sacco a pelo e dallo zaino con le cinghie sdrucite. Quelli della polizia ferroviaria fanno finta di niente, non hanno cuore di scacciarlo.
Osvaldo non ha calendario, non vale la pena contare giorni e anni. Questa mattinata afosa d’inizio agosto è solo una delle tante a scivolare silenziosa tra le foglie dei platani.
Finché non ode un rombo sordo.
La detonazione, la colonna di fumo, la gente che corre verso la stazione.
Il parco della Montagnola è sopra una collinetta, offre una panoramica sulla stazione ferroviaria e dintorni. Osvaldo osserva persone come formichine in lontananza dirigersi verso il fumaiolo tetro comparso in cielo.
Abbandona lo zaino sulla panchina e corre, senza sapere perché.
Trova polvere, macerie bagnate di sangue. è crollato il soffitto della sala d’aspetto.
Le implorazioni dei feriti, le urla dei soccorritori, ambulanze e sirene, da schiantare le orecchie.
Le urla dei morti.
Questi morti, chi li conta. Sulla pensilina del primo binario, sotto le macerie. Barelle improvvisate.
“Scavate, c’è qualcuno là sotto!”
Osvaldo scava con le mani nude e i calli spessi, non c’è tempo per pensare, per porsi domande, ancora.
È scoppiato un tubo, una caldaia… no, una bomba. Nessuno vuole porsi domande, ancora.
Il passamano dei mattoni. Ferrovieri, pendolari, tassisti… poi arrivano i vigili del fuoco. La catena umana giunge su Piazza Medaglie d’Oro, dove l’autobus 37 si trasforma in carro funebre. La corsa pazza delle auto verso l’Ospedale Maggiore, verso il Malpighi…
Una lunga giornata trascorsa a mangiare polvere e rabbia.
Osvaldo non si concede un attimo di respiro. Come gli altri, come formichine laboriose, guidate da un comandante invisibile, assaltano il cumulo di macerie. Pezzo a pezzo, mattone dopo frammento, la catasta orribile viene smembrata e disfatta.
Smembrati, i corpi vengono estratti in fretta. Per loro non c’è più niente da fare, meglio scavare veloce, forse qualcuno ha rimasto un anfratto d’aria, là sotto, si può salvare.
Al calar della notte lo sgombero è concluso. I morti sono negli obitori. I feriti, tutti soccorsi. Si sparge ammoniaca. Finalmente si può cominciare a piangere.
Si contano i morti. 50, 60… forse 100. No, solo 85.
Solo ottantacinque. Una bambina di tre anni, un anziano di ottantasei.
Nel mezzo, tutti gli altri.
A tarda notte di quel mercoledì 2 agosto, Osvaldo ritorna alla sua panchina sulla Montagnola. Di colpo, tutta la stanchezza della giornata gli crolla addosso.
Prima di sdraiarsi, si appoggia alla balaustra di ferro arrugginito. La stazione, in lontananza, è illuminata a giorno dai riflettori dei vigili del fuoco e mostra la ferita al ventre.
Ha le braccia dolenti, Osvaldo, e la schiena non va d’accordo col legno della panchina.
Non riesce a trovar sonno, Osvaldo. Davanti agli occhi gli ripassano le immagini macabre. Quei corpi stravolti, amputati.
Molti però erano ancora vivi, li hanno salvati. Quel ragazzo biondo, per esempio. Gemeva e sputava sangue, ma era vivo.
E così la signora dai capelli bianchi. Forse aveva un braccio rotto, ma era viva.
Nella solitudine del parco, con il ronzio delle ruspe in lontananza e un grillo sul prato, Osvaldo sente di appartenere di nuovo all’umanità.
Aveva frequentato la sala d’aspetto della stazione per quasi un decennio e in quel tempo aveva imparato a prendere le distanze dalla varia umanità di passaggio. Osservava i viaggiatori, era incuriosito dai volti, specie se orientali, però in cuor suo riteneva di non appartenere allo stesso genere umano. Si era ritirato nel suo angolino e da lì guardava le vicende del mondo con occhio distaccato, senza emozionarsi più di tanto, anzi l’indifferenza era diventata la sua seconda pelle.
Leggeva i giornali abbandonati nei cestini dopo un’occhiata distratta da parte di viaggiatori annoiati.
Leggeva, e il mondo gli pareva un grande gioco di monopoli senza regole fisse, o meglio… ognuno cercava di costruirsi le regole da sé.
Doveva essere così anche per quelli che avevano messo la bomba.
La bomba, però, non aveva solo sventrato la stazione e ottantacinque corpi, aveva anche lacerato il sipario dell’indifferenza. Di Osvaldo e di innumerevoli altre persone.
Dopo aver fatto parte della catena umana, quel mercoledì maledetto, l’animo di Osvaldo aveva cambiato atteggiamento. Si sentiva ora parte pulsante di un tutto.
Le mani nude che avevano scavato e trasportato macerie avrebbero continuato a toccarsi e rimanere saldate per sempre, avrebbero formato il cordone ombelicale della umanità nuova.
Con la schiena a pezzi, disteso sulla panchina della Montagnola, e un grillo solitario per compagnia, Osvaldo, paradossalmente, si sente felice.
Felice di appartenere nuovamente all’umanità. E intanto piange i morti.
Osvaldo è tornato uomo, quel 2 agosto del millenovecento… ma che anno è?
Lo avrebbe saputo solo leggendo il giornale, il giorno dopo. Per la prima volta, da quasi dieci anni, si preoccupò di leggere la data scritta in piccolo sotto il nome della testata.

* * *

Anch’io fui uomo, quel mercoledì 2 agosto. Avevo sedici anni, compiuti quattro giorni prima. Le immagini tivù sembravano un film di guerra.
Anch’io, come Osvaldo, mi ero estraniato dal mondo, fino ad allora. Avevo inseguito piccole illusioni quotidiane da teen-ager.
Sparirono in un colpo, come bolle di sapone.
La città non fu più la stessa, dopo l’esplosione. Nessuno di coloro che videro le immagini sarebbero più stati gli stessi.
La vita è proseguita, certo. Il giorno dopo alcuni treni già transitavano nella stazione, nei mesi seguenti notizie sporadiche sui progressi nelle indagini. Poi, li avrebbero chiamati “depistaggi”. Passarono gli anni, fu celebrato il processo. I colpevoli furono condannati… poi assolti… sentenze e contro-ricorsi, annullamenti. Se chiedete a qualcuno, oggi, chi sono i colpevoli della strage, nessuno saprà rispondere.
Molti, quasi tutti, hanno dimenticato. Altre bombe sono scoppiate, poi è arrivato l’11 settembre…
Anch’io avevo dimenticato, intrappolato negli affanni meschini di una vita dai binari già segnati: la scuola, le vacanze al mare, l’esame di maturità, il servizio militare, il lavoro. La sicurezza di un ufficio e una scrivania. A seguire, lunghi anni sempre uguali.
Me ne ricordai solo quando, in un afoso pomeriggio d’agosto del millenovecentonovanta… (curioso, non ricordo l’anno esatto, comunque si era vicini al fatidico duemila), mi ritrovai alla stazione per accogliere un parente in arrivo da Roma.
Nella sala d’aspetto, nel punto dove scoppiò la bomba, una lapide nera ricorda i nomi delle vittime, la loro età. C’è pure un giapponese.
Provai a immaginare il giapponese appena sceso dal treno, con la sua fedele macchina fotografia a tracolla. Destino bastardo. Venire dall’altro capo del mondo per morire a Bologna, che oltretutto è sempre rimasta fuori dal grande giro turistico.
Una sezione del muro, tra la sala d’aspetto e la pensilina del primo binario, non è mai stata ricostruita. Al suo posto, un semplice vetro perpetua la memoria dell’esplosione.
Me ne stavo piantato lì, di fronte alla lapide, a leggere la sequenza dei nomi sconosciuti, eppure così vicini al cuore.
Osvaldo si avvicinò. Lo vedevo per la prima volta. Per me era solo un barbone, né più né meno. Indossava una canottiera ingiallita e un paio di bermuda di color grigio indefinibile. Ai piedi, infradito da spiaggia. Barba bianca, corta, il viso rubicondo ma con enormi zampe di gallina che dagli occhi giungevano quasi alle orecchie, il mento arrotondato. Mi fece venire in mente il Braccio di Ferro dei fumetti, però molto più vecchio. Gli mancava solo la pipa.
Pensai volesse chiedermi l’elemosina, ficcai la mano in tasca alla ricerca del borsellino con le monete.
Invece lui si piazzò di fianco a me, osservò la lapide.
“Ha visto quanti morti? Che bastardi…”
Rimase immobile a fissare il marmo nero, lucido. L’altoparlante annunciò la partenza di un espresso.
“Che bastardi” ripeté, guardandomi come se cercasse approvazione.
“Sì” risposi, mentre mi tornavano alla mente le immagini tivù di molti anni prima.
“Io c’ero quel giorno, ho scavato nelle macerie” allungò le braccia e mi mostrò le mani tozze, quasi vi si potessero ancora scorgere tracce di sangue "sono vecchio però ho ancora una bella forza, non come i giovani d'oggi che sono tutti mosci."
All’inizio non compresi bene, forse lo guardai con aria interrogativa, perché lui ribadì:
“Abbiamo lavorato fino a notte, abbiamo tirato fuori tanti cadaveri… ma anche gente viva. Non ho più rivisto nessuno di loro.”
Mi accorsi che parlava dei sopravvissuti come fossero suoi parenti.
Parenti emigrati lontano che hanno dimenticato di scrivere la cartolina.
Lo osservai meglio per capire se vaneggiava o diceva sul serio, se le affermazioni erano autentiche o solo frutto di qualche bicchiere in più. Gli occhi, soffocati dalle palpebre un poco rigonfie, sembravano sinceri.
“Quando hanno ricostruito la sala d’aspetto” proseguì lui “mi sono sistemato là in fondo, vede?” accennò col dito all’angolo in alto a sinistra della sala, quello più lontano dall’uscita verso i binari “da lì osservo tutti, se qualcuno vuol fare il furbo e piazzare un’altra bomba, non mi sfugge di sicuro.”
Non potei fare a meno di sorridere. La sala d’aspetto era dotata di telecamere e di una sorveglianza rigida da parte di Polizia e personale della ferrovia. Era comunque rassicurante sapere che il vecchio barbone vegliava sui passeggeri.
L’altoparlante annunciò l’arrivo di un eurostar da Roma, ma non era il treno che interessava a me.
“È in partenza?” mi chiese lui, tirandomi da parte per far spazio a un gruppetto di giapponesi chiassosi e sorridenti che volevano ammirare la lapide da vicino.
Ci sedemmo sulle poltroncine di plastica.
“No” gli risposi “sono venuto a prendere mio zio che arriva con il treno delle sedici e venticinque” mancavano appena cinque minuti.
“Per caso viene da Roma?”
“Sì, perché?”
“Quel treno è sempre in ritardo.”
Stavo facendo gli scongiuri quando l’altoparlante annunciò che il treno era per l’appunto in ritardo di trentacinque minuti.
Lui mi guardò e sorrise. Io un po’ meno.
“Pensi che se ci fossimo trovati qui, quel giorno, proprio in questo punto dove siamo ora” allargò le braccia per indicare lo spazio circostante “ci avrebbe ridotto in brandelli.”
In quel momento non compresi il significato reale della frase, pensai solo che ero ben contento di essere vivo e che le stazioni ferroviarie non mi piacevano granché.
“Quella mattina ero seduto su una panchina della Montagnola, quando…” Osvaldo prese a raccontarmi la sua versione dei fatti, proprio quella che ho cercato di tradurre in queste pagine, con le inevitabili lacune che il tempo trascorso, e i molti fiaschi di vino, avevano prodotto.
Quando annunciarono il treno da Roma, Osvaldo aveva già terminato il racconto e stava per ripeterlo tutto daccapo.
Mi alzai e lo salutai con una pacca sulla spalla. Nella fretta mi dimenticai persino di lasciargli qualche moneta. Forse non è stato un male; da come parlava mi considerava già un amico ed è imbarazzante ricevere l’elemosina dagli amici.
* * *
Dopo pochi mesi, in prossimità del Natale, la stazione ferroviaria di Bologna divenne per me un luogo di transito consueto. Diventai un pendolare per lavoro.
Nelle prime due settimane, in attesa del treno della mattina, perlustrai con regolarità la stazione alla ricerca di Osvaldo. Se non altro, avevo un debito di alcuni spiccioli con lui.
Lo cercai nella sala d’aspetto, nel bar, nella toilette, nel sottopassaggio. Nessuna traccia. Chiesi anche al personale di servizio della ferrovia. Qualcuno si ricordava del barbone, ma nessuno seppe dirmi dove si fosse cacciato.
Dopo quindici giorni abbandonai le speranze e smisi di cercarlo. In effetti non lo vidi più.
Tuttavia, ogni volta che mi siedo sulle scomode poltroncine di plastica della sala d’aspetto, non posso far a meno di pensare a lui. E mi sorge un rammarico: quel giorno non l’ho neppure ringraziato per essere stato un eroe silenzioso.
Nessuno lo ha mai ringraziato. Ma forse a lui non interessa.

Era la fine di agosto; il tempo era incerto, piovigginava. Non era il caso di andare alla spiaggia; avevo approfittato per portarmi avanti coi cómpiti delle vacanze. A metà pomeriggio però il sole era uscito sfolgorante asciugando in un attimo ogni cosa. Uscii fuori, avevo bisogno di muovermi, di fare due passi. L’aria si era rinfrescata ma il sole era ancóra caldo.
Mi avviai per il terreno proibito verso la Colonia, senza realmente pensare di andarla ad esplorare.
Camminavo a testa bassa badando a dove mettevo i piedi, sicché all’improvviso me la trovai davanti, enorme e minacciosa. Decisi d’impulso di vincere quella leggera ripulsa che mi prendeva ogni volta che la vedevo e mi avvicinai lungo la stradina sabbiosa.
Man mano che mi avvicinavo mi appariva sempre più cadente, molto più di quanto non apparisse di lontano. I primi due ponti, quelli più bassi, erano disabitati, ma l’ultimo aveva tre o quattro oblò aperti, come per dar aria alla stanza. Una tendina bianca svolazzava entrando ed uscendo da uno di essi. Ma chi abitava la Colonia?
La porta d’ingresso era sbarrata, ma non sarei entrato comunque. Avevo intenzione di fare un giro di esplorazione attorno alla nave, tanto per vedere. Arrivai sul retro, che aveva lo stesso aspetto del davanti: le terrazze contornavano simmetricamente tutta la Colonia. Le prime due erano sempre deserte, ma sulla terza, appoggiato al parapetto vidi un vecchio con una pipa in bocca che guardava lontano verso le colline. Quando mi scorse mi fece un cenno con la mano invitandomi a salire. Esitai un attimo (Non dar retta agli sconosciuti che ti chiamano o ti danno caramelle!), ma poi mi decisi. Al centro della fiancata posteriore c’era una scaletta che portava al primo ponte, e poi altre portavano su. E così in un attimo fui sul terzo ponte.
Lassù tirava un’arietta fresca che veniva dalle colline. Con la schiena al muro e la faccia al sole c’era una decina di vecchietti seduti su una panca lungo la parete delle cabine. Sembravano un gruppo di piccioni, quando d’inverno si stringono sulle grondaie per scaldarsi. Erano tutti abbronzati e rugosi, non come me che prendevo il sole un mese all’anno al mare, ma con l’abbronzatura che hanno quelli che passano la vita all’aria aperta. Pensai che fossero contadini.
Mi guardarono sbucare dalla scaletta con uno stupore pari al mio, come se non fossero abituati a ricevere visite. Ricambiarono in coro il mio saluto. Quello che mi aveva chiamato mi si avvicinò: puzzava del sigaro toscano che fumava sbriciolato nella pipa. Mi invitò a sedermi su una panchetta di fronte alla fila di vecchi che mi guardavano con curiosità.
Son veduto a vedere il tramonto, dissi tanto per rompere il ghiaccio.
Uno dei vecchi rispose allegro:
Puoi stare qui finché vuoi.
Un altro intervenne:
Il tramonto…Mio padre defunto diceva sempre: il tramonto è il più bello spettacolo del mondo, ed è gratis.
Mi parve buffo che quel vecchio decrepito avesse voluto precisare che suo padre era defunto.
Tutte le robe più belle sono gratis, disse un altro, e diede l’avvio ad una specie di coro:
Nuotare in mare è gratis…
Anche correre…
E cantare…
Svegliarsi al mattino senza i dolori reumatici e poter scendere dal letto con le proprie gambe è gratis, e questa è la cosa più bella di tutte.
Anche morire nel sonno è gratis. E anche questo è bello, perché non hai il tempo di spaventarti.
Ci fu un silenzio, finché il vecchio che mi aveva chiamato spazzò l’aria con un largo gesto della mano e disse:
Andiamo! Questi discorsi ai ragazzi non interessano.
Mi chiesero allora di dov’ero e se avevo dei parenti da quelle parti e quando gli dissi di no non parvero convinti e mi chiesero come mi chiamavo di cognome, poi il cognome dei miei nonni; e presero a rimbalzarseli l’un l’altro, quei nomi, alla ricerca di una parentela che mi radicasse alla loro terra. Pensai che dovessero essere convinti che Adamo ed Eva erano nati lì da loro, nell’Abissinia.
Alla fine si rassegnarono un po’ delusi. Per consolarsi conclusero che assomigliavo un po’ al vecchio postino di Riccione.
Sai, disse uno, si chiamava Battarra Viliam; proprio così: Viliam, perché l’ufficiale dell’Anagrafe si era sbagliato a trascrivere il nome che il padre avrebbe voluto dare al suo unico maschio, William, e gliel’aveva scritto così. Quando se n’era accorto era troppo tardi e allora era rimasto Viliam.
Il vecchio rideva:
E lui per tutta la vita quando si presentava dice: Battarra Viliam, Vi-semplice-una-elle, che sembrava un titolo onorifico.
Parli tu che ti chiami Pilmer, che non si sa bene dove l’abbia pescato tuo padre un nome così.
In Romagna ci sono i nomi più fantasiosi d’Italia. Tutti ridevano con le bocche sdentate, calcolai che avevo più denti io di tutti loro messi assieme. Ridevano con dei pigolanti suoni di gola che anche stavolta mi ricordarono uccelli spennacchiati e freddolosi; poi in tutti il riso scoppiò in lunghe e rantolanti tossi.
Mentre si riprendevano asciugandosi le lacrime approfittai per domandare che lavoro facevano o avessero fatto. Rispose uno per tutti:
Siamo stati tutti marinai, e questa è una colonia destinata a noi che ci possiamo venire qui a passare un mese di vacanza spendendo due lire.
Ma poi intervennero tutti gli altri, a chiarirmi la loro vita, ognuno con una frase o un commento:
Una volta eravamo in tanti qui alla Colonia, ora siamo rimasti solo noi.
Occupiamo le cabine dell’ultimo ponte, dove tira più vento, così ci pare di stare ancóra in mezzo al mare.
Stiamo qui il mese di agosto.
Quand’è che andiamo via?
Domani andiamo via, Cisarein. Prepara la valigia, stasera.
Aspettano che moriamo per chiudere la Colonia, disse Cisarein.
Ma noi li facciamo penare!, aggiunse un altro con un sorriso malizioso.
Chissà chi sarà l’ultimo di noi, quello che spegnerà la luce e chiuderà la porta…
L’anno scorso c’era anche Sulìv, vi ricordate?
Era il più vecchio.
È morto a gennaio. Aveva un anno più della morte.
E chi vi fa da mangiare?, domandai.
Ci facciamo da mangiare da soli.
Sì, in mare si impara a fare di tutto, cosa credi. Non c’è mica la mamma a farti la minestra.
Adesso siamo vecchi, siamo in pensione.
A terra, in pensione, il marinaio è tutto diverso da com’era prima. Perchè prima lui pensa che farà, che andrà, che dirà. E dopo invece finisce a gironzolare tutto il giorno sul molo ad aspettare le barche che tornano dalla pesca.
Eh, non è facile andare in pensione, affermò un vecchio filosofo.
Ci fu un attimo di silenzio.
Che bel sole!, fece uno. Peccato andar via domani.
Eh, ma inizia a far freschino. Domani comincia settembre.
Te hai sempre freddo.
Avevano ripreso a chiacchierare sottovoce tra di loro. Presto, come avevo sperato, si dimenticarono della mia presenza. Io li spiavo, immobile per non farmi notare. Ad alcuni tremavano le mani, grandi e dalle dita nodose, e quel movimento continuo faceva nascere l’illusione che stessero sferruzzando o rammendando reti da pésca, il fantasma di un lavoro che accompagnava i loro discorsi pieni di fantasmi. Perché, come fanno i vecchi, non parlavano mai del domani, il domani era da esorcizzare, con i suoi pensieri di morte. Parlavano di cose ed avvenimenti passati da anni. Ci giravano intorno come farfalline al lume, interrompendosi a vicenda, domandando, spiegando.
Capii che si raccontavano storie, sempre quelle, ricordi della loro giovinezza. E capii anche che nel gruppo c’era un narratore, proprio quello che fumava i sigari tritati nella pipa. Tutte le chiacchiere, le domande, le osservazioni apparentemente svagate avevano il solo scopo di innescarlo, di offrirgli un ventaglio di possibilità perché potesse iniziare una storia, una che sapevano già tutti e a cui tutti contribuivano con dettagli e particolari.
Ti ricordi di Maurino?, disse uno.
In quella comunità i morti occupavano un posto importante; anzi era come se non fossero mai morti ma fossero là assieme agli altri, in mezzo a loro, perché quei vecchi seguitavano a ricordare e raccontare le loro esistenze.
Come no, quel ‘patàca’…, rispose il vecchio freddoloso.
‘Patàca’ sì, ma intanto lui la guerra l’ha fatta da imboscato.
Perché?, chiese Cisarein.
Non ti ricordi? Tutti i rischi che correva erano quelli per strada dalla casa del generale al Ministero!
Ecco, il narratore era innescato e attaccò:
Sapeva guidare e così era entrato negli Autieri e faceva l’autista di un generale della Marina a Roma. Una volta ci siamo trovati a casa tutti e due in licenza. Io venivo dal fronte, lui da Roma. E io gli ho detto: ‘Maurino, te che frequenti i generali, prova a chiedergli quando finisce ‘sta guerra boia.’
Che generali frequentava Maurino?, interruppe uno.
Ma quello a cui faceva da autista, no? E quindi gli dico di informarsi, e lui mi fa: ‘Va bene. Aspetto il momento opportuno e glielo chiedo.’ Passano tre mesi e torno dall’Albania. Prima di mandarmi in Corsica mi fanno fare due giorni di licenza a casa e trovo Maurino, anche lui in licenza.
Ma era sempre a casa quello?, chiede Pilmer.
Eh, mica per niente era autista di un generale. Allora ci vediamo in piazza e gli dico: ‘Ce l’hai chiesto al generale quando finisce la guerra?’
Che guerra?, interrompe Cisarein. Quella del 15 o l’ultima?
L’ultima, l’ultima. Era del 16, lui, mica aveva potuto farla la prima.
Il narratore non si spazientiva mai. Le ripetizioni erano continue, ma i vecchi sembravano fregarsene delle perdite di tempo e non si annoiavano, come se ad ogni ripetizione acquistassero un minuscolo ulteriore frammento di verità fino ad allora nascosto, che arricchiva la storia dell’amico defunto.
Dunque gli domando se aveva chiesto al generale quando finiva la guerra. E lui: ‘Ma ci vuole l’occasione!’ ‘Ma non ti parla mai?’ ‘Oh! È raro. La settimana scorsa per esempio mi ha chiesto un fiammifero…’ E io: ‘Ecco! quella era l’occasione’ ‘Ma dai! A uno che ti chiede un fiammifero gli vai a domandare quando finisce la guerra!’ Insomma non gliel’aveva chiesto.
Te l’ho detto che era un ‘patàca’!, commenta il vecchio freddoloso.
E il narratore riprende:
L’ultimo giorno che ero a casa in licenza vado dai carabinieri per il foglio di viaggio, scivolo per le scale e mi rompo una gamba.
Che fortuna!
La fortuna fu che me l’ero rotta sotto i loro occhi, altrimenti i caramba erano capaci di sospettare che l’avevo fatto apposta per non partire. E invece mi misi a letto col gesso. Dopo quindici giorni mi viene a trovare Maurino.
Ancóra in licenza!, fece Pilmer.
Eh, te l’ho detto. E allora gli chiedo: ‘Hai chiesto al generale?’ E lui: ‘Sta bon! Due giorni fa stavamo andando a Ministero della Marina quando mi fa: ‘E te come ti chiami?’
Ma non sapeva come si chiamava il suo autista?!, allibisce un vecchio.
I generali son fatti così, sembra che tu non li conosca!
E chi ha mai visto un generale…
Beh, insomma: gli chiede come si chiama. ‘Maurino’, fa lui. E il generale: ‘Senti, Maurino: secondo te quando finisce la guerra?’
Di nuovo udii il pigolio delle loro risate seguito dai colpi di tosse e dalle lacrime. Molti la storia probabilmente la sapevano già, molti se l’erano dimenticata; comunque fosse il narratore aveva avuto il solito successo, e attaccò con un’altra.
Maurino è stato sempre bene in vita sua, mai un malanno. Ma quando ebbe sessant’anni, neanche tanto vecchio, il mal di schiena non gli dava tregua.
Anche a me l’artrite…
Lo sappiamo, Cisarein. Ma lui stava male davvero. Il dottor Battarra…
Parente di Viliam Vi-semplice-una-elle?, domandò il vecchio-filosofo.
Non so. Il dottore l’aveva visitato e gli aveva dato dei sulfamedici da prendere.
Cosa sono i sulfamedici?, chiese ancóra Cisarein
Delle medicine, no?
Ah! Credevo fossero degli altri dottori.
Pigliava le medicine, ma servivano a poco. E siccome il dottor Battarra andava due volte alla settimana, il martedì e il venerdì, a Cattolica con la corriera, Maurino aveva preso l’abitudine di aspettarlo sotto la pensilina della fermata di Miramare, che era a trenta passi da casa sua. Si metteva lì con la moglie, la Dolores, seduti su due sedie impagliate, quelle da cucina. E aspettavano, e intanto che aspettavano la Dolores puliva i fagiolini o faceva la calza. Poi arrivava la corriera e lui dava una voce al dottor Battarra.
Per salutare?, chiese Cisarein.
Anche. Si sporgeva un po’ sulla sedia e urlava:‘Buongiorno dottoreee!’. E Battarra, attraverso il finestrino:‘Saluteee!’ E Maurino: ‘Sapete che ho sempre mal di schienaaaa?’
Eh sì, perché ai dottori si dava del voi, chiosò il vecchio-filosofo.
Già. E Battarra, seduto nella terza fila della corriera: ‘Stai seduto, Maurinooo. Prendi il salicilatooo, non troppo se no ti fa brucioreee’. La corriera partiva e lui si faceva dare il salicilato dalla Dolores. E così Maurino si evitava di andare all’ambulatorio che non era lontano da casa sua, ma col mal di schiena anche un chilometro è tanto. La volta dopo la stessa scena: ‘Dottore mi brucia lo stomacooo’. E Battarra: ‘Tira fuori la linguaaa’. Maurino tirava fuori una lingua grigia e bianca. Il dottore gliela guardava attraverso il vetro, e poi:‘Prendi un cucchiaio di magnesiaaa’, faceva. E così due volte la settimana visitava Maurino stando seduto in corriera.
E se pioveva?, chiese Pilmer.
Fa niente. Loro due, Maurino e la Dolores, aspettavano la corriera impassibili, come niente fosse. Una mattina alla fermata di Miramare c’era solo la Dolores. Il dottor Battarra fa: ‘Dov’è Maurinooo?’ E lei: ‘A letto. Ha la testa che scottaaa e i piedi gelatiii.’
‘Impacchi caldi ai piedi e freddi in fronteee.’
Di farina di lino, quelli caldi?, si informò il vecchio freddoloso.
Impacchi, non so. Il martedì successivo c’era sempre solo la Dolores sotto la pensilina. ‘Come vaaa?’, fa il dottore. ‘Ah, signor dottoreee! Maurino mi è morto ieri sera alle undiciii’. E Battarra: ‘Condoglianzeee! Fatevene una ragioneee: anche la scienza ha i suoi limitii!’
Ai vecchi gli occhi gli si illuminano e sorridono tristemente e con dolcezza ricordando l’amico scomparso: il sorriso era l’unico bagaglio che si fossero portati dietro dall’infanzia.

Il sole stava tramontando dietro la montagna di S. Marino, e sembrava che la sera si arrotolasse sul giorno, partendo dal mare. Era ora di tornare. Mi alzai dalla panchina e me ne andai in punta di piedi; loro non se ne accorsero impegnati com’erano a raccontarsi una antica vicenda di mare. Córsi a casa, mi misi a tavola per la cena senza dir niente ai nonni.
Il giorno dopo tutti gli oblò erano chiusi, nessun asciugamano era più steso ad asciugare: i vecchi marinai erano partiti, e non li ho rivisti più.

 

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